I diversi tipi di immagine di sé (self-image) e le distorsioni percettive

© Articolo a cura di: dott. Daniele Trevisani, Studio Trevisani Formazione, Consulenza e Coaching.

Testo estratto dal volume di Daniele Trevisani “Regie di Cambiamento”, Franco Angeli editore, Milano.

Il dramma del Divario Fondamentale apre una grave problema di consapevolezza (e inconsapevolezza) su cosa sia necessario cambiare. Infatti, senza una visione chiara – guidando con un parabrezza completamente appannato – rischiamo di andare contro un ostacolo. Se poi i nostri sensi sono annebbiati, il rischio è ancora più grave. Nessuno – nei percorsi educativi classici (scuola, università) – aiuta seriamente le persone a fare focusing, depurarsi da credenze dominanti, cercare e creare un proprio percorso.

Parabrezza oscurati e alcool nel sangue non sono nulla rispetto alla mancanza di autocoscienza media su cosa e come sia necessario cambiare per migliorare se stessi e gli altri. Nelle aziende questo non è diverso, ma anzi peggiora. Ma come sviluppare autocoscienza e uscire dalle oscurità?

Una delle possibili strade è la comparazione tra diversi livelli di immagine percettiva. In un sistema d’immagine corretto, le diverse immagini da latenti diventano consapevoli, gli autoinganni si riducono e la realtà si fa più chiara.

Lo schema seguente espone cinque tipi di identità/immagini diverse (da noi identificati in ALM31), che producono un sistema di distanze a vari livelli.

Le tipologie di identità/immagine da noi identificate sono presenti sia nel singolo individuo che nella sfera aziendale:

Immagini/identità a livello individuale

  1. Real Self: Realtà oggettiva del Sé

Come sono realmente io, quali sono i miei veri pregi, i miei difetti, le mie abilità, le mie lacune, le mie dissonanze, come e cosa comunico realmente.

  1. Self Image: Immagine di sé

Come io vedo me stesso, come penso di essere, come penso di comunicare, quali sono i pregi, difetti, abilità e lacune che credo di avere (“credo”, non necessariamente ho).

  1. Ideal Self Image: Immagine del Sé ideale o immagine obiettivo

Come vorrei essere, come vorrei comunicare, quali sono i miei desideri di abilità e competenze, gli atteggiamenti e punti di forza che vorrei possedere.

  1. Immagine del Sé ipotizzata

Come penso gli altri mi vedano; come credo di essere visto dagli altri (credenza soggettiva, non dati di fatto).

  1. Immagine personale etero-percepita

Come gli altri mi vedono veramente, come valutano la mia comunicazione, il mio modo di essere, i miei comportamenti, atteggiamenti, abilità e lacune.

Una costante ricerca dei divari di percezione consente di vedere la realtà meglio rispetto all’angolazione unica.

Occorre enorme umiltà per sottoporsi al giudizio altrui senza sentirsi automaticamente aggrediti, ma utilizzandolo come feedback. Se un amico ci dice onestamente qualcosa su di noi che “fa male”, non è il caso di prendersela con l’amico, ma di valutare se abbia o meno colto qualcosa che merita approfondimento. Andare alla ricerca di una completa realtà oggettiva è probabilmente utopico, ma depurarsi da false rappresentazioni di sé (o della propria organizzazione) è invece possibile, riducendo il margine di distorsione.

1 Vedi ALM3: Trevisani D. (2003), Comportamento d’acquisto e comunicazione strategica, FrancoAngeli, Milano.

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Il dramma del “Divario Fondamentale”: la distanza tra bisogno percepito e bisogno reale di cambiamento; fare focusing per ridurre il gap di consapevolezza

© Articolo a cura di: dott. Daniele Trevisani, Studio Trevisani Formazione, Consulenza e Coaching.

Testo estratto dal volume di Daniele Trevisani “Regie di Cambiamento”, Franco Angeli editore, Milano.

 

Per capire come e dove occorre crescere serve la possibilità di osservarsi per “come si è”. Ogni sistema (persona, team, azienda) vive un dilemma interiore: da un lato “abita” la propria realtà dall’interno, dall’altro lato avrebbe bisogno di osservarsi dall’esterno.

Non potendo essere in due luoghi contemporaneamente, non ha in nessun momento l’occasione di potersi scrutare con la stessa lucidità con cui un estraneo – distaccato – vede le cose.

Riflessioni operative:

  • considerare l’esistenza di un possibile divario – anche forte o drammatico – tra esigenze auto-percepite e esigenze reali;
  • abbinare la propria autoanalisi a quella di visioni esterne o valutazioni esterne su cosa sia bene cambiare; ottenere feedback dall’esterno per poterlo comparare con le proprie percezioni e valutazioni interne;
  • rimanere umili (evitare dell’altezzosità che impedisce di ricercare il miglioramento) in ogni stato o condizione di vita.

Nelle aziende la soluzione ai problemi di organizzazione ed efficienza è spesso alla portata di mano, è sotto gli occhi di tutti, ma nessuno se ne accorge, poiché il problema stesso si nasconde nella quotidianità.

Un ladro in una via deserta è allo scoperto, ma in un mercato affollato si sottrae alla vista rapidamente. Un granello di sabbia su un tavolo pulito si può percepire, ma in una spiaggia si confonde. Lo stesso vale per i problemi aziendali e personali. Spesso in una famiglia basta uno sguardo alle conversazioni che avvengono a tavola per capire cosa non va, mentre i membri dall’interno si arroventano da anni in dilemmi interiori alla ricerca del “cosa succede” e “di chi è la colpa”.

Nelle aziende non nasce spontaneamente – una mattina – un fungo con su scritto “qui serve più leadership e meno lassismo”, oppure “qui manca la capacità di comunicare ai dipendenti”, o “dobbiamo dare più spazio alla meritocrazia”, ma bisogna scoprirlo osservando i micro-comportamenti quotidiani, le interazioni reali, una riunione o un colloquio informale, le voci di corridoio.

Collegare i sintomi alle cause è difficile, a volte impossibile. Numerosi meccanismi di difesa ci impediscono di vedere le cose come sono. È più facile dare la colpa al destino che riconoscere di avere assimilato dal padre o dalla madre un modo di essere improduttivo.

Una persona non scopre magicamente che sta perdendo tempo in una linea di pensiero arida ma lo deve scoprire focalizzando i sintomi e risalendo alle possibili fonti. E probabilmente da solo non ce la farà.

Un atleta, o un manager, difficilmente riesce a inquadrare da solo cosa esattamente dovrebbe perfezionare di sè e in quale direzione, e ancora meno cosa fare per crescere. Se costruisse un auto-piano di allenamento con molta leggerezza o supponenza verrebbe da dubitare sulla qualità della sua analisi. Il bisogno di crescita spesso nasconde dettagli che sfuggono all’auto-percezione.

Nella mia esperienza come coach di atleti di arti marziali, ho osservato come alcuni elementi particolari poco percepibili per l’atleta stesso – es.: l’altezza delle braccia mentre è impegnato in una tecnica di calcio – potevano spiegare molti errori. Il soggetto trascurava questo aspetto (perché occuparsi delle mani se sto colpendo con le gambe?). Il problema era tuttavia forte: le mani in posizione sbagliata creano un aumento del tempo necessario a ritrovare una guardia corretta, mentre assettandole bene si produceva un micro-risparmio di tempo in grado di fare la differenza. Solo un osservatore esterno poteva vedere questo dettaglio. Lo stesso vale per molti problemi connessi al cambiamento.

Ne troviamo esempi ogni giorno in azienda: il bisogno di rafforzare il marketing può essere solo un sintomo, che nasconde la presenza di un titolare invadente il quale pretende di fare da direttore marketing e commerciale. Poiché non ne ha le competenze – impedisce di fatto la crescita del reparto. Ogni tentativo di training in questa situazione può risultare improduttivo se le interferenze non cessano, ma scoprire questo “baco latente” è impresa non facile.

Il focusing – apprendere a focalizzare – è la strada da imboccare per smettere di vagare nel buio, in tentativi disordinati.

Il focusing è un processo generale, la cui radice non è riconducibile ad un unico autore. Dobbiamo a Gendlin1 la sua presenza e affermazione tra le scuole psicoterapeutiche contemporanee, ma francamente non possiamo dimenticare quanto i greci e i romani antichi abbiano insistito sulla necessità di focalizzare, ascoltare e ascoltarsi2.

Fare focusing è necessario per ridurre il gap di autoconoscenza, e – se un focusing attuato dal singolo è utile – un focusing aiutato da un professionista o consulente è spesso più efficace.

Riflessioni operative:

  • realizzare focusing (autoanalisi e analisi assistita) per far emergere aree di lavoro, lasciando fluire le proprie sensazioni in un ambiente psicologico non giudicante e di massima accoglienza, non valutativo;
  • raccogliere quanto emerge dal focusing per identificare possibili target di cambiamento.

Nel focusing auto-diretto, si corre il rischio di incontrare un forte gap di autoconoscenza: non conoscersi a sufficienza o illudersi di conoscersi.

È estremamente difficile riuscire ad auto-osservare lucidamente il proprio bisogno di cambiamento, passare dal livello di “sensazione” di un disagio o di una ambizione alla corretta localizzazione del dove, come, quando agire.

Il problema tocca anche l’azienda. A livello di autoanalisi troviamo un gap di consapevolezza anche per la Direzione Risorse Umane e per i leader di team, quando l’osservatore non coglie bene il quadro reale, e le “verità” si offuscano dietro a sintomi e sensazioni imprecise o falsi target.

Da questo derivano problemi a cascata, ad esempio:

  • sbagliare il piano formativo di una persona o di una azienda;
  • usare una strategia formativa meravigliosa ma praticabile solo sulla carta;
  • progettare utilizzando assunti e presupposti sbagliati;
  • scollegarsi dalla realtà, sfuggire il “come sono le cose realmente”.

Riflessioni operative:

  • considerare che la propria conoscenza sullo stato di cose può non essere corretta, o può essere viziata da distorsioni e autoinganni;
  • considerare quanta distanza è presente tra la “sensazione” vaga di un disagio o problema e la sua corretta identificazione, a livello di sede e di cause;
  • considerare che le prime sensazioni o “letture” – senza focusing adeguati – portano spesso a distorsioni, abbagli, valutazioni errate;
  • ricercare punti di vista e confronto multipli per ridurre il margine di errore;

1 Gendlin, E. (2001), Focusing. Interrogare il corpo per cambiare la psiche, Astrolabio, Roma. Ed. originale: Focusing-Oriented Psychotherapy. A manual of the experiential method; vedi anche E. Gendlin, (1996). The power of Focusing, Ann Weiser Cornell, (1996).

2 Vedi ad esempio Plutarco, L’arte di ascoltare. Mondadori, Milano, 2004. Altra fonte: Plutarco, L’educazione, traduzione e note di Giuliano Pisani, Ed. Biblioteca dell’Immagine, Pordenone, 1994, pp. 161-187.

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Il cambiamento come pulsazione e i segnali deboli

© Articolo a cura di: dott. Daniele Trevisani, Studio Trevisani Formazione, Consulenza e Coaching.

Testo estratto dal volume di Daniele Trevisani “Regie di Cambiamento”, Franco Angeli editore, Milano.

Il concetto di cambiamento come “pulsazione” o respirazione vitale è un ancoraggio primordiale cui tornare.

La vita nei suoi ritmi naturali è una pulsazione, un continuo flusso di ingresso e uscita, una respirazione viva, che lascia entrare e venire fuori, un battito che possiamo avvertire sin dal primo respiro di un neonato.

Un consulente esperto o chiunque abbia sensibilità sufficiente, può sentire “il respiro” e i suoi significati. Possiamo concentrarci sul “respiro dell’azienda”, “il respiro di un team”, il “respiro della persona” e capire se il clima è teso o rilassato, positivo o negativo, aperto o chiuso, formale o informale, se sono presenti veleni e blocchi, rigidità e tensioni.

Quando un sistema funziona, inesorabilmente emette segnali che indicano se esiste benessere e motivazione, o invece demoralizzazione, sconforto e rabbia repressa. Possiamo cogliere la presenza di obiettivi o il vuoto. Il “vuoto” si nasconde spesso dietro ad un’azione frenetica, priva di tattica e strategia.

Riflessioni operative:

  • analizzare i “segnali deboli” che indicano se il tipo di “respirazione” del soggetto (sia in senso fisico che metaforico, persona o sistema organizzativo) sia profondo e vitale, o superficiale e carico di tensioni;
  • portare l’analisi al livello delle motivazioni e della storia del soggetto, non limitarsi a suggerimenti rapidi o sintomatici.

Nella psicoterapia corporea, così come nelle scienze sportive, il tipo di respirazione è uno dei temi fondamentali di lavoro, poiché ad essa si correlano numerosissimi aspetti emotivi.

La respirazione sana e salutare non è frenetica e convulsa, ma anzi è profonda e ben riconoscibile. La crisi e sofferenza di chi psicologicamente sente il desiderio di cambiare ma non riesce genera respiro affannoso e contratto. Osservare come respirano le persone, quando parlano di sé o del proprio lavoro, può dire molto rispetto al vissuto emotivo sottostante e allo stato di equilibrio o squilibrio esistente.

Ogni consulenza o azione formativa energica è di per sé una “azione di scossa metabolica” in cui un sistema viene aiutato a ritrovare la propria respirazione ed equilibrio, rimettendo in moto la plasticità ed intervenendo sui tre principi fondamentali: immissione, espulsione, stabilizzazione.

Capire come intervenire volontariamente e con precisione chirurgica sui tre settori del principio metabolico è una sfida fenomenale.

Ogni processo di cambiamento profondo prevede l’esame attento di quali siano le operazioni da compiere sulle tre zone.

Un esame incompleto, l’attenzione ad una sola di queste aree, porterebbe a progetti sbagliati, incompleti, insoddisfacenti per chi li attua e per chi li riceve.

Principio 1 – Principio metabolico

Il cambiamento positivo viene favorito dalle seguenti operazioni:

  • acquisizione: riuscire ad identificare e riconoscere il bisogno di imparare, le acquisizioni importanti, ciò che si deve apprendere, assimilare, far entrare, per avvicinarsi all’obiettivo. L’obiettivo può essere qualsiasi target di cambiamento che si collega all’efficienza o ad un percorso autorealizzativo – immagine di sè ideale, organizzazione ideale o migliore, incremento della serenità o del senso di efficacia, della potenza personale o del sistema, della resistenza o resilienza, della capacità di problem solving, o qualsiasi altro traguardo;
  • consolidamento: è necessario identificare quali sono i punti di ancoraggio (valori, credenze, pensieri, comportamenti) che il soggetto o sistema vuole consolidare e far diventare riferimenti solidi;
  • rimozione: è necessario identificare e riconoscere ciò che sia importante cedere, rimuovere, abbandonare, cosa sia importante eliminare, ripulire, cosa disapprendere, cosa lasciar andare, di cosa disfarsi (identificazione dei cataboliti e degli elementi da espellere dal sistema).

     

    Il cambiamento viene bloccato o ostacolato da:

  • perdita di riferimento o incapacità nel capire cosa si debba acquisire, apprendere, far entrare (mancato riconoscimento dei target, dei “nutrienti” o ingredienti necessari per produrre il cambiamento);
  • focalizzazione sulla sola fase acquisitiva, senza identificare e riconoscere ciò che si deve abbandonare, disapprendere, rinunciare, lasciare dietro di sè (processi mentali, cataboliti mentali o scorie psicologiche, comportamenti, stereotipi, abitudini controproducenti);
  • perdita di ancoraggi fondamentali e indispensabili negli equilibri della persona o dell’organizzazione, mancanza di ancoraggi forti o punti di stabilità.

 

L’analisi riguarda qualsiasi tipo di ruolo o sistema. Posso chiedermi, come padre, cosa potrei fare per migliorare nel mio ruolo di genitore, cosa dovrei imparare, cosa non so fare adesso e dovrei apprendere (zona 3), posso chiedermi anche cosa dovrei smettere di fare per essere un padre migliore (zona 1), posso anche chiedermi cosa vorrei non fosse toccato, ma anzi consolidato, a cosa non vorrei mai rinunciare di me (zona 2).

Un atleta può chiedersi – ad un certo punto della sua carriera – dove vuole arrivare, a quale livello vuole competere, e cosa questa scelta comporta.

Lo stesso tipo di analisi vale per un ruolo aziendale, o per una intera organizzazione. Per un azienda possiamo infatti chiederci:

  • cosa deve apprendere questa organizzazione, chi ne ha bisogno, cosa deve entrare? (zona 3).
  • cosa deve smettere di fare questa organizzazione, cosa deve abbandonare, a cosa deve rinunciare, o di cosa deve sbarazzarsi, quali modi di pensare o di essere sono ora controproducenti o non più validi? (zona 1).
  • a cosa deve ancorarsi, cosa non è opportuno rigettare, ma anzi consolidare? Quali sono gli ancoraggi forti? (zona 2).

I meccanismi di autorealizzazione personale sono basati sulla plasticità del sistema o della persona, la sua apertura verso il cambiare e l’evolvere, l’accettazione che – in quanto esseri viventi – siamo soggetti al cambiamento.

Formarsi caratterialmente e fisicamente è uno degli obiettivi di ogni persona che abbia un senso di autostima sufficiente, e – rivolto ai figli – diventa uno degli obiettivi di ogni genitore sensibile. Come possiamo tradurre questo concetto verso la crescita di una intera azienda o intero team?

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Il principio metabolico e la plasticità del sistema: rimettere in moto il “respiro” della persone, del team o dell’ azienda

© Articolo a cura di: dott. Daniele Trevisani, Studio Trevisani Formazione, Consulenza e Coaching.

Testo estratto dal volume di Daniele Trevisani “Regie di Cambiamento”, Franco Angeli editore, Milano.

Abbiamo identificato tre fasi o operazioni indispensabili attraverso le quali focalizzare il cambiamento: cedere, consolidare, far entrare.

L’alchimia tra le diverse fasi è estremamente delicata. Spesso il fatto stesso di confondere il cambiamento con un apprendimento (es., con una lezione didattica) crea false premesse e false aspettative. Una lezione didattica raramente cambia la sostanza di una persona; “sentire parole” non equivale a capirle, ad assimilarle e ancora meno ad interiorizzarle. Chiunque di noi ha ascoltato docenti noiosi delle cui lezioni non ricorda assolutamente nulla.

L’approccio esperienziale all’apprendimento – e di riflesso al cambiamento – rappresenta una delle poche certezze cui ancorarsi: i cambiamenti efficaci sono quelli in cui le persone sono portate a vivere esperienze impattanti, “scottanti” – vissute e partecipative – e non solo “udite”. Sentir dire che qualcosa scotta non è efficace quanto lo scottarsi direttamente.

L’esperienza vissuta in prima persona è più efficace del semplice “udire” e “entra” con maggiore forza nel sistema target.

Vediamo quindi il box seguente:

Riflessioni operative:

  • non illudersi: per produrre impatto è insufficiente “parlare”, “dire”, “insegnare”, “fare una lezione”, o “mostrare” (approccio one-way): dovremo considerare le innumerevoli resistenze al cambiamento, e il fatto che servono angoli di attacco multipli;
  • prendere in considerazione ove possibile un approccio esperienziale in cui il soggetto possa “far pratica” e vivere il cambiamento (palestra di cambiamento) per interiorizzarlo progressivamente;
  • chiedersi quali esperienze sbloccanti possono scalfire le credenze attive, aprire la porta alla volontà di cambiare e crescere;
  • chiedersi come produrre un approccio esperienziale e partecipativo rispetto ai target di cambiamento e apprendimento.

Se confondiamo il cambiamento con la sola acquisizione o esposizione sbagliamo. Prendiamo come esempio il corpo umano: l’ingresso di nutrienti e sostanze (cibo, acqua, aria) non è di per se sufficiente alla vita. Se il corpo non fosse in grado di metabolizzare ciò che entra – gestire, digerire, espellere – morirebbe in pochi secondi.

Il sistema rigido (persona o team) blocca gli input in ingresso, non accetta messaggi difformi rispetto a quanto egli crede già. Chiude le porte a nutrimenti (let-in) – persone, pensieri e credenze – che rischiano di mettere in crisi ciò che lo sorregge, vede come pericolo ogni forma di estraneità o non conformità.

La poca informazione che entra non è adeguatamente rielaborata. L’output è ridotto, le performance sono scarse.

In un sistema “ingolfato” il flusso di cataboliti e scorie in uscita (let-out) è ostacolato e il sistema finisce per nutrirsi dei propri escrementi. Nulla viene lasciato uscire. Si tratta di una prigione fisica o psicologica tremenda.

Spesso la malattia diventa l’esito inevitabile della rigidità. Possiamo parlare di malattia fisica o del corpo, ma anche di malattia psicologica o patologie dei sistemi organizzati. Anche un piccolo team, come una squadra di calcio o di pallavolo, o un settore aziendale, può vivere queste fasi patologiche e “ammalarsi” di rigidità.

Riflessioni operative:

  • assumere un atteggiamento positivo verso la ricerca di nuovi input, ricercare stimoli, alimentarsi di nuove conoscenze anche trasversali e multidisciplinari (feed-in), permettere a nuovi concetti di entrare (let-in), per poterne esaminare e valutare la validità, la natura e sostanza senza preconcetti;
  • accettare l’eliminazione o rimozione di parti del sistema, come fase indispensabile a qualsiasi mutazione.

Chi ha vissuto un clima che impedisce l’ingresso di input non conformi alla ideologia dominante, o l’espressione esterna, sa cosa significa. Lager, gulag e altre forme di totalitarismo sono casi estremi e riguardano pochi, ma anche – più semplicemente – climi familiari o di coppia asfissianti, gruppi o aziende intossicati da “aria” psicologicamente malata, sono laboratori nefasti di esperienze tristi e dolorose, comuni a tantissime persone.

Il bisogno di cambiamento è diffuso. Riguarda persino il bisogno di una persona di “sfuggire da se stesso”, trasformare tratti di sé con i quali convive faticosamente (es.: ansia, insicurezze, paure, tratti di personalità).

Il cambiamento è al tempo stesso problema e risposta, contiene ambizione e spavento. Le persone vivono la dissonanza costante tra desiderio di evolvere e bisogno di fermarsi a riposare o trovare abitudini e consuetudini in cui rifugiarsi. Il bisogno di riposare è giusto e sano. Diventa malato quando una persona o sistema pensa di potersi riposare su una montagna di rifiuti tossici e continuare ad aspirarne le esalazioni, magari illudendosi di essere al sicuro.

I sistemi che non evolvono finiscono per dare prestazioni (performance) deludenti, prima di tutto su variabili soft o intangibili, poi verso fattori estremamente hard e a volte drammatici. Esempio: in azienda si parte dalla perdita di creatività o sensibilità umana, quindi si sviluppano climi psicologici inquinati e deleteri, successivamente i migliori manager iniziano ad andarsene verso la concorrenza, portando via progetti e clienti.

Ciascuno di noi può farsi dominare dalla frenesia quotidiana, arrivare alla incapacità di concentrazione e rilassamento, poi sopraggiunge l’irrigidimento mentale, quindi le relazioni conflittuali con tutti, quindi l’incomunicabilità e la perdita di affetti, o di lavoro. I primi segnali – come la perdita di vitalità esistenziale – se non colti e presi sul serio, inesorabilmente ricadono verso conseguenze molto tangibili (fallimento, caduta, malattia, depressione, morte).

Riflessioni operative:

  • valutare le performance del soggetto non solo rispetto a parametri classici, ma soprattutto riferendosi a indicatori qualitativi. Es.: in un’azienda, quanto l’amministratore delegato e ogni manager sia in grado di creare un clima di motivazione che riesca a trattenere i talenti in azienda, non solo misurare le vendite nel breve periodo;
  • per un individuo, valutare non solo (e spesso nemmeno considerare) il suo “conto in banca”, ma il suo stato di soddisfazione verso se stesso e l’approccio verso la vita, la sua vitalità esistenziale;
  • valutare l’apertura o rigidità del soggetto verso nuovi concetti o inputs.

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Evoluzione assertiva,verso le Effect-Based Operations

© Articolo a cura di: dott. Daniele Trevisani, Studio Trevisani Formazione, Consulenza e Coaching.

Testo estratto dal volume di Daniele Trevisani “Regie di Cambiamento”, Franco Angeli editore, Milano.

 

 

 

 

L’evoluzione è un processo che accade. Ogni creatura vivente o sistema organizzativo sono soggetti a mutazione, che lo desiderino o meno. Il vero problema è dirigere le traiettorie di questa evoluzione – decidere attivamente dove il sistema deve finalizzarsi – per creare benessere e performance.

È indispensabile una presa di coscienza sul fatto che le traiettorie evolutive dei sistemi senza governance (governo, direzione) sono spesso degenerative e possono dare esiti pericolosi (malattia, morte, fallimento). I casi di autogoverno efficace esistono, ma si presentano solo in sistemi che siano già maturi e consapevoli, e questi sono rari.

L’evoluzione assertiva prevede che cambiamento e intervento siano mirati agli effetti (centrate sui risultati da produrre) e non fini a se stessi. Cambiare per il gusto di cambiare non è il nostro obiettivo, anzi, ogni cambiamento o intervento che non risponda a criteri strategici è in realtà una diseconomia, una moda e non una necessità.

Cambiare strategicamente significa passare da uno stato X ad uno stato Y.

È essenziale che X e Y siano focalizzati (identificati). La Y (stato di destinazione) corrisponde ad un’evoluzione positiva, ad un migliore stato di adattamento (fit) e di benessere organizzativo, fisico o mentale, o ad una revisione strategica del sistema sul quale si intende agire.

Ogni obiettivo evolutivo è da valutare lungo un ideale asse dei tempi, un “percorso” che separa X da Y.

Gli interventi realmente assertivi generano una mutazione del trend, non “fumo”. Le regie creano “passaggi obbligati” tramite operazioni (operations) centrate sugli effetti da produrre (effect-based operations).

Come costruire le operations o stimoli che vada nella direzione voluta è il problema centrale delle regie.

Riflessioni operative:

  • valutare lo stato attuale del soggetto o sistema (stato X) rispetto agli obiettivi di evoluzione;
  • definire degli ancoraggi ideali futuri, gli stati ottimali cui tendere (stato Y);
  • valutare i passaggi, stimoli o operations che possono portare il soggetto da X a Y, selezionare gli interventi centrandosi sugli effetti (effect-based operations), evitare la dispersione di azione o su risultati non precisati o poco chiari.

Produrre assertivamente cambiamento quando necessario, e non solo facilitarlo quando il bisogno è già sentito, è un problema ulteriore.

Dare acqua a chi sente sete è abbastanza semplice. Offrire acqua a qualcuno che – perso in un’allucinazione sensoriale – non senta il bisogno di bere seppure disidratato è un problema più forte. Ovviamente, la sete riguarda il cambiamento e l’acqua qualsiasi nutrimento (conoscenza, comportamenti, valori, strumenti) o variazione che permetta di dare un contributo all’evoluzione positiva.

Condividere la necessità di avviare un percorso è uno dei passaggi indispensabili in un metodo registico.

Riflessioni operative:

  • sforzarsi di condividere l’esigenza di avviare un percorso;
  • inquadrare le traiettorie del “percorso” scelto per andare da X ad Y;
  • condividere l’analisi dello stato X e dello stato Y, dettagliatamente, affinché la condivisione di obiettivi sia profonda e non solo superficiale;

Altra questione essenziale è la ricerca di un equilibrio tra tecniche direttive e tecniche non direttive. Le tecniche direttive prevedono prescrizioni, modelli, concetti insegnati o distribuiti, regole o struttura, mentre le tecniche non direttive lasciano spazio all’autonomia del soggetto e alla sua personale ricerca di un percorso. Anticipiamo da subito che il modello delle regie propone un mix integrato tra le due, con una prevalenza sostanziale tuttavia (non ideologica, ma metodologica) per le tecniche direttive.

 

Riflessioni operative:

  • definire quali parti di un percorso di cambiamento hanno bisogno di (1) tecniche direttive, strutturazione, regole, protocolli, e (2) quali porzioni del percorso devono lasciare spazio a tecniche non direttive, auto-espressione, autoregolazione del soggetto o del sistema, alla ricerca di una propria strada per il miglioramento;
  • realizzare un mix equilibrato (direttivo/non direttivo) tra le diverse metodiche di intervento.

Desideriamo inoltre avviare una prima definizione e porre altre basi per un metodo registico:

 

Prima definizione: Il cambiamento è un processo di variazione nello stato di un sistema (persona, gruppo, o organizzazione) che prevede la scalata progressiva verso il pieno potenziale e la sua autorealizzazione.

Il meccanismo di cambiamento contiene sia (1) fasi di eliminazione, ripulitura, rifiuto, rimozione o disapprendimento, (2) processi di consolidamento e rafforzamento, (3) meccanismi di acquisizione (entrata) di nuovi concetti, modelli, teorie, atteggiamenti, comportamenti.

Le azioni finalizzate al cambiamento (operations) devono prevedere fin dall’inizio gli effetti da produrre, valutando quali mix di operations serviranno per produrre quali effetti.

 

Ogni singola parola di questa definizione meriterebbe enormi dibattiti e approfondimenti. Ci è sufficiente per ora concentrarsi sul fatto che il cambiamento desiderato è positivo, tocca il sistema dei valori profondi e non solo le azioni visibili, ha a che fare con la ricerca di orizzonti psicologici nuovi (diversi modi di essere, nuovi modi di “stare” nel mondo), mette in discussione lo stato attuale, impatta i temi del potenziale, della performance, e dell’espressione di se stessi verso una autorealizzazione profonda. In ultimo prende in considerazione gli effetti come parametro finale, definitivo punto di arrivo di qualsiasi processo assertivo e di qualsiasi investimento mirato.

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Ricercare una visione ispiratrice per il percorso: le tre zone del cambiamento

© Articolo a cura di: dott. Daniele Trevisani, Studio Trevisani Formazione, Consulenza e Coaching.

Testo estratto dal volume di Danie

le Trevisani “Regie di Cambiamento”, Franco Angeli editore, Milano.

 

 

 

 

Prima di acquistare un biglietto per una vacanza, occorre decidere il tipo di esperienza che si vuole vivere. È necessario ispirarsi ad una visione, a volte questo significa sognare, guardare oltre, decidere se si desidera viaggiare per far raccolta di fotografie o di emozioni, se stare da soli o in compagnia, e di chi. In altre parole, serve una visione ispiratrice. Anche nel cambiamento organizzativo siamo di fronte a questa scelta di fondo.

Un meta-modello, una visione ispiratrice che governa i modelli specifici di cui ci occupiamo, è il modello metabolico.

Nella nostra prospettiva, ogni soggetto (persona, team o azienda) – impegnato in un percorso di cambiamento – può essere assimilato ad una cellula. Una cellula che “respira” è viva, una cellula chiusa, imprigionata in se stessa, è morta.

Il sistema-cellula scambia informazioni o sostanze con l’ambiente esterno muta, evolve, si sforza di far entrare nutrienti, e cerca di espellere cataboliti (materiali di scarto), veleni o sostanze tossiche.

Agire sul cambiamento significa dare impulso a tali dinamiche.

Ogni sistema vivente, piccolo o grande – se desidera vivere – deve continuamente lavorare per mantenere i suoi equilibri interiori in un ambiente che cambia senza sosta. Il funzionamento descritto assomiglia molto a quello di una macchina, o di un’unità biologica, tuttavia la dinamica del cambiamento psicologico, culturale e organizzativo, non è estranea a questi processi.

Diversi approcci alla psicologia, come la Bioenergetica, riconoscono questo tipo di funzionamento:

un qualsiasi organismo, per quanto complicato, funziona sempre, nel suo insieme, come un’unica cellula. Le funzioni vitali dell’organismo quali l’espansione e la contrazione, la tensione verso l’esterno ed il ritiro in sé o all’indietro, l’assorbimento e l’emissione, sono regolate da quello che è conosciuto come principio del piacere1.

In altre parole, il cambiamento positivo cerca di portare tendenzialmente una persona o un sistema verso uno stato di maggiore piacere e soddisfazione (“andare verso”), rifuggendo da dolore e disagio (“allontanarsi da”).

Questo prototipo di funzionamento generale ha tuttavia delle aberrazioni pratiche e apparentemente illogiche, come la persistenza volontaria in uno stato di disagio, l’assunzione di sostanze (fisiche) o pensieri (mentali) che causano danni all’organismo.

Nel capitolo sull’omeostasi esamineremo come questi fatti siano da collegare ai meccanismi di regressione verso l’abitudine, il tentativo di mantenere equilibri, anche se precari o dannosi, mosso dalla pulsione umana verso la sedentarietà o dalla difesa del carattere da attacchi esterni. Lottare contro questi antagonisti del cambiamento, tra cui la “resistenza” e la regressione, fa parte di un’analisi registica del cambiamento.

In termini metaforici, possiamo evidenziare in un sistema umano che cambia tre differenti attività prima di tutto mentali, che corrispondono ad altrettante operazioni psicologiche concrete: acquisire, consolidare, espellere.

Nel metodo delle regie il cambiamento è visto come un meccanismo nel quale è necessario far luce su (1) cosa sia bene acquisire, far entrare (2) cosa sia bene mantenere, consolidare e (3) di cosa sia invece opportuno disfarsi, abbandonare, lasciare.

Si tratta del principio di base del metabolismo, la cui sostanza vale in ogni processo di cambiamento personale o aziendale, terapeutico o formativo.

Riepilogando, le tre aree di analisi principali individuate nel “modello metabolico” sono:

 

  • Zona 1: rimuovere, abbandonare, disapprendere, lasciar andare, disfarsi di…
  • Zona 2: consolidare, mantenere, aggrapparsi a, rafforzare, ancorarsi a…
  • Zona 3: acquisire, imparare, apprendere, assimilare, far entrare…

 

Il lavoro mentale di focusing (identificare, localizzare, far luce, diradare la nebbia, far emergere) consiste nella ricerca di quali siano i contenuti delle tre aree. Senza un focusing adeguato, un’azione che intende produrre cambiamento può diventare persino controproducente o avere effetti opposti a quelli desiderati, come un pugno sferrato nel buio può rischiare di colpire un amico.

1 AA.VV. (2007), Bioenergetica, in Wikipedia, enciclopedia online (al 4/1/2007).

 

 

 

 

 

 

 

 

Riflessioni operative:

  • analizzare cosa il soggetto (persona o sistema) deve disapprendere, abbandonare, eliminare dal proprio modo di essere, di agire o pensare; valutare le difficoltà sottostanti nel farlo, gli ancoraggi che rendono il cambiamento difficile, le pulsioni profonde;
  • analizzare e rafforzare gli ancoraggi di identità, di comportamento e di atteggiamento, sui quali si costruisce la propria solidità interiore;
  • valutare i bisogni di apprendimento, sia come conoscenza da immettere, che come comportamenti o atteggiamenti da far entrare per produrre sviluppo positivo.

 

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©Copyright. Vietata la copia o riproduzione non autorizzata. Per contatti. Altri approfondimenti sul volume sono disponibili alla sezione dedicata alla Psicologia, Formazione e Coaching sul sito Studiotrevisani e sul blog Formazione Aziendale, risorse per la Formazione e Risorse Umane.

 

Alchimie tra forze contrapposte: La lotta tra pulsioni di assimilazione, stabilità, rimozione

© Articolo a cura di: dott. Daniele Trevisani, Studio Trevisani Formazione, Consulenza e Coaching.

Testo estratto dal volume di Daniele Trevisani “Regie di Cambiamento”, Franco Angeli editore, Milano.

energie mentalienergie mentali

 

 

 

 

Il cambiamento positivo è il motore dell’evoluzione e riguarda ogni persona e ogni organizzazione. Il propulsore psicologico può essere un obiettivo da raggiungere, l’orgoglio, volontà, sogni e aspirazioni (motori psicologici positivi), o invece bisogno, sofferenza, necessità di rimuovere uno stato di disagio (motori psicologici negativi).

Chiunque desidera progredire deve mettere in conto un investimento concreto, fatto soprattutto di tempo ed energie mentali, e deve apprendere a ricentrarsi verso le priorità strategiche (azioni di ricentraggio).

Rimanere aperti a nuovi input riguarda indifferentemente la crescita personale, lo sviluppo delle aziende e delle organizzazioni, il mondo del business o quello dello sport. Nelle arti marziali, un Maestro afferma che:

…il praticante deve cercare sempre lo sviluppo delle sue conoscenze e perfezionarle nel corso della sua evoluzione… deve vivere in una perpetua situazione di apprendistato durante la sua esistenza, perché le situazioni e i metodi evolvono costantemente1.

Secondo questa visione, il cambiamento non è quindi un “atto finito”, ma un “atteggiamento di fondo”, un “amore” verso un percorso fatto di ricerca, di curiosità per il nuovo, di attenzione al nuovo, che mette in atto un meccanismo evolutivo costante.

Siamo sempre in qualche forma di “apprendistato” e possiamo sempre imparare qualcosa di nuovo. Tuttavia, ogni mutamento – volontario o subìto – richiede impegno e presenta un costo (tempo, energie, fatica), e molti non desiderano pagarlo o lo posticipano sino all’ultimo. Le conseguenze in questi casi non tardano ad arrivare.

I “mostri” contro cui lottare sono tanti. Tra questi la regressione verso l’abitudine, un meccanismo involontario che porta le persone a “rintanarsi” e rinchiudersi in riti quotidiani – a volte dannosi. Il “drago” prende anche sembianze di “politico”, attua meccanismi volontari quali il boicottaggio attivo del cambiamento (cercare di bloccare il processo e gli input esterni) e frena l’evoluzione di un sistema, per puro interesse personale.

Abbiamo ancora le resistenze ideologiche, valoriali, o i blocchi che chiunque mette in atto quando sente che altri cercano di attuare un ingresso nel proprio territorio psicologico. Ritroviamo ancora il problema delle energie per cambiare, la cui mancanza può frenare anche le migliori intenzioni. Si presenta inoltre il problema della competenza o incompetenza del consulente o formatore, chiamato ad aiutare il processo evolutivo.

Gli ostacoli possono essere tanti. Questa è solo una breve e incompleta rassegna delle sfide che ci attendono.

Nonostante le avversità che incontriamo, l’evoluzione è – e rimane – un fattore di sopravvivenza. In un certo senso siamo tutti “forzati del cambiamento”, costretti dall’ambiente a non fermarci, ad adattarci, a mutare, poiché il territorio fisico e sociale attorno a noi – e quello psicologico dentro di noi – cambia, è in costante evoluzione. Il movimento del terreno sul quale una persona poggia permette solo due cose: cadere, o trovare nuovi assetti ed equilibri.

Noi ci rivolgiamo a quelli che vogliono farsi trovare pronti nelle sfide, ricercano il grounding (radicamento, sentirsi fisicamente e psicologicamente ancorati) e allo stesso tempo possiedono spirito di ricerca e si sentono diretti verso un fronte positivo, un orizzonte, e amano lottare per questo.

Il “metodo registico” intende offrire strumenti e concetti utili a chi si occupa di cambiamento positivo e “formazione” nel suo senso più vasto, ma anche di evoluzione assertiva (guidata da principi), trasformazioni del modo di essere, di sistemi di apprendimento e di sviluppo organizzativo, e ancora di potenziale individuale, human potential e human performance, crescita e maturazione individuale o delle imprese.

I tre soggetti-tipo cui si indirizza il metodo sono (1) chi desidera praticare un percorso di evoluzione personale con maggiore consapevolezza dei meccanismi che lo governano; (2) i clienti e ruoli istituzionali strategici coinvolti in progetti sul cambiamento, sviluppo e formazione (dirigenti, leader e manager); (3) i professionisti esterni (consulenti organizzativi, formatori, coach, allenatori e direttori di team, aziendali e sportivi) chiamati a supportare e produrre performance, ad avviare relazioni di aiuto per “cambiare le cose” e “far crescere” (una persona, una squadra, un sistema).

Ognuna di queste persone deve essere aiutata ad acquisire le abilità e capacità fondamentali (key-learning) per far fronte a nuove sfide prioritarie (key-challenges). Cambiare e formarsi serve anche per poter affrontare le sfide.

La realtà ci presenta (nei casi migliori) organizzazioni e persone già pronte ad un cambiamento, anche forte. Ci offre anche organizzazioni e persone restie, o persino contrarie, e che tuttavia hanno bisogno di variare il proprio assetto perché non più adeguato. Nell’uno e nell’altro caso, dobbiamo capire come poter procedere, quale strategia adottare, e come muoverci per essere efficaci.

Nei box “cosa fare” – esposti durante il testo – evidenziamo alcuni suggerimenti operativi su vari temi che riguardano il facilitare il cambiamento, connessi agli argomenti trattati. Vediamo quindi il box seguente:

Riflessioni operative:

  • analizzare se e quanto un soggetto (persona o sistema) possa permettersi di non cambiare, alla luce delle sfide ambientali e sociali che lo attendono, o sia invece nella necessità di dover migliorare o progredire;
  • inquadrare i key-learning (apprendimenti chiave) in risposta alle key-challenges (sfide prioritarie) che attendono la persona (o sistema organizzativo);
  • valutare quanto il soggetto (persona o sistema) sia intenzionato ad impegnarsi in un percorso di cambiamento;
  • capire quali sono i blocchi verso il cambiamento;
  • creare un clima positivo verso il percorso di cambiamento, legato ai benefits che il percorso può produrre.

Può esistere quindi un metodo per inquadrare i bisogni di evoluzione in modo assertivo, mirato e finalizzato ad obiettivi strategici? Nel passaggio successivo esamineremo un’ipotesi: la visione del “principio metabolico”.

1 Cohen, Alain (2007), Principi I.D.S. Krav Maga, in Budo International, 1/2007.

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Strategie di vendita: il primato della comunicazione face-to-face

© Articolo a cura di: dott. Daniele Trevisani, Studio Trevisani Formazione, Consulenza e Coaching.

Un produttore di ingranaggi che vuole vendere prodotti ad un costruttore di macchine non può certo pensare di fare pubblicità televisiva nel prime time “colpendo” 10 milioni di spettatori sperando che in questo “mucchio” vi siano i 3-4 decisori che contano, i responsabili acquisti e dirigenti dell’azienda cliente.

Ogni Business ha di fronte a sé due grandi strade: (1) le comunicazioni pubblicitarie, spesso costose, massificate, dagli enormi budget, figlie di un miraggio fatto di inutili lustrini sfavillanti, e (2) – soprattutto nel Business to Business – la scelta di formarsi come professionisti nel mondo delle negoziazioni interpersonali e incontri umani, tra persone vere.

Per la stragrande maggioranza delle imprese e delle organizzazioni non ha senso investire in pubblicità di massa, a tappeto, occorre imparare a colpire i decisori. Occorre un approccio più mirato.

Un club sportivo che deve ottenere una palestra da un Comune, dovrà convincere lo specifico dirigente, e probabilmente fare azione di sensibilizzazione anche sull’Assessore allo Sport. Non può certo pensare di persuaderli tramite un’inserzione su un giornale.

Dovrà per forza incontrarli di persona, negoziare con loro, vendere loro dei benefici e un’immagine di chi siamo e di cosa vogliamo fare. Dovrà dare garanzie di affidabilità, e la certezza che, come fornitori o come interlocutori, non saremo creatori di problemi per la loro carriera aziendale o politica.

Un contratto da stipulare per un appalto o una fornitura strategica non verranno mai aggiudicati se non attraverso trattative e incremento della conoscenza personale, fiducia, forti legami personali, percezione di benefici.

Ancora, pensiamo a quanta dose di “vendita” e “sviluppo del rapporto umano” vi sia in un colloquio di lavoro, e nella decisione di fidarsi di un certo professionista in ogni campo (medico o avvocato, dentista, fisioterapista, ingegnere o consulente), e persino in un corteggiamento, e nelle tante forme della seduzione.

Riflettiamo. È sufficiente affidare la seduzione o la costruzione della fiducia ad uno spot o ad un volantino, cartaceo o digitale che sia? Possiamo pensare che uno spot faccia per noi il “lavoro” del capire l’altro, entrarvi in relazione, e costruire una relazione solida?

La pubblicità non è inutile, è uno strumento che serve in casi molto specifici, ma non va confusa con la comunicazione in senso lato. Sono due gambe con le quali le aziende corrono, con la differenza che la gamba pubblicitaria è spesso bella e massaggiata e la gamba della formazione alla negoziazione e comunicazione umana, è amputata.

Siamo circondati e bombardati da pubblicità, da tecnologie di messaggistica, sino alla nausea, siamo stati riempiti di bugie e promesse vuote, e non ci fidiamo più. E abbiamo ben ragione di essere stanchi.

Per questo, molto peso è tornato al fattore umano e all’incontro umano, al guardarsi negli occhi, al voler capire con chi stiamo trattando, un momento essenziale per i progetti che contano davvero.

Il business del futuro è il risultato di progetti che le imprese, tramite le persone, conducono assieme ad altre imprese tramite persone umane, in carne ed ossa. È il ritorno del primato dell’uomo.

È in questo campo che si gioca una partita fondamentale. È questo il terreno dove ancora – e sempre più – conta la sensibilità che solo il fattore umano può portare.

Lavorare in partnership con i clienti è una sfida. Significa costruire dal nulla progetti su misura per il cliente, avere la capacità di offrire unicità e consulenza, qualità e soprattutto “valore relazionale aggiunto” che faccia la differenza tra noi e gli altri.

Il mondo degli incontri umani di business face-to-face è più “vero” di quello pubblicitario, è molto più frequente per le piccole, medie e grandi imprese, è un fatto quotidiano, e per le aziende è essenziale formarsi su questo.

Nelle comunicazioni personali, face to face, tutto conta: gli sguardi, le strette di mano, le trattative che le aziende conducono per concludere progetti, affidandosi a poche, selezionate persone in grado di capire situazioni complicate e condurre operazioni negoziali complesse.

In tali progetti si può essere annientati e deprivati di ogni potere negoziale, o “portare a casa” un risultato. Si può costruire o distruggere il futuro.

Sulle spalle e sulle capacità di poche persone, in poche ore di trattativa, si decide il destino di progetti destinati a cambiare intere aziende, il futuro del loro personale e delle famiglie che lavorano.

Lì, sul “teatro” della vendita e della negoziazione, si gioca il destino delle aziende.

E su questo fronte vogliamo stare, e rimanere.

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©Copyright. Testo estratto dal volume di Daniele Trevisani “Strategic Selling. Psicologia e Comunicazione per la vendita”, Franco Angeli editore, Milano, 2011. Vietata la copia o riproduzione non autorizzata. Per contatti, vedi Studio Trevisani Formazione, Consulenza e Coaching.

Muoversi entro il quadro mentale dell’interlocutore durante una negoziazione

© Articolo a cura di: dott. Daniele Trevisani, Studio Trevisani Formazione, Consulenza e Coaching.

L’approccio mentale del comunicatore professionale e del negoziatore è completamente centrato sugli obiettivi da raggiungere valutando il quadro mentale degli interlocutori.

Nessuno può comunicare nel vuoto, parlando ad un muro. I comunicatori, venditori e negoziatori professionali parlano “con” qualcuno, devono trattare o negoziare “con” qualcuno. Devono capire come la controparte ragiona.

Come sostiene un esperto nel coaching di vendita Senior, Antonio Greci:

 

1. Lo Strategic Selling è un modo di essere.

2. Lo Strategic Selling non è una procedura.

3. I professionisti dello Strategic Selling si riconoscono dal fatto che ascoltano in profondità.

4. Il talento principale di chi pratica Strategic Selling è essere naturalmente empatici1.

 

La presenza degli “altri” ci obbliga quindi a diventare analisti, a capire – giusto per citare quale variabile tra le tante – (1) se stiamo trattando con una persona o azienda che ha una forte propensione alla pianificazione (Propensity to Plan) o che pianifica poco; (2) se il nostro interlocutore cerca un rimedio rapido e immediato, mosso da urgenze, o non ha fretta; (3) se trattiamo con persone materialiste o grette o invece dal forte spessore umano; (4) se stiamo lavorando con qualcuno che cerca un puro vantaggio personale o invece un vantaggio per la propria azienda di appartenenza, o un mix di entrambi, quali sono i benefici che la nostra controparte cerca per sé e quali per l’azienda.

È altrettanto essenziale capire (5) se esistono gli spazi per vendere un singolo prodotto o se – al contrario – riusciremo a creare le condizioni per diventare fornitore continuativo e di fiducia, un partner pluriennale, di un cliente con cui costruire progetti di lungo termine2.

Alcuni clienti agiscono istintivamente, persino irrazionalmente, altri ragionano con logica fredda e numerica.

Su nessuna di queste variabili possiamo dare per scontata la psicologia dell’acquirente. Ogni acquirente ha un profilo psicologico da inquadrare.

Possiamo infatti avere a che fare con persone orientate a pianificare il meno possibile, la cui prospettiva temporale si esaurisce nella giornata di domani (se va bene, per non dire di oggi stesso), o persone orientate al lungo periodo, che costruiscono non solo per sé ma anche per chi li seguirà nella vita e in azienda.

Le prime non si pongono il problema di quali saranno le conseguenze a lungo termine delle loro scelte. Le seconde si.

Secondo la Grande Legge degli Indiani Irochesi, ogni decisione doveva essere valutata in base agli effetti che essa avrebbe avuto sino alla settima generazione futura: gli effetti quindi sui loro bambini, e sui figli dei figli, sulle vite altrui, con il risultato di produrre una grande saggezza.

Tuttavia, non possiamo pensare di trattare solo con persone sagge, o solo razionali, o solo emotive.

La negoziazione prevede l’incontro con la varietà umana.

Dobbiamo entrare nell’assetto mentale adeguato a trattare con qualsiasi tipo di mentalità, incontrare qualsiasi tipo di atteggiamento, di cultura, e di valori. In caso contrario, saremmo abili solo con un certo tipo di cliente e handicappati verso altri. Possiamo pensare ad un concetto di “stretching comunicazionale” che ci metta in grado di essere efficaci con diversi tipi di cliente. In questo sta la flessibilità dei comunicatori e negoziatori professionali.

1 Greci, Antonio (2010), Educazione alla vendita: fondamenti di Vendita Consulenziale e Strategica, materiale didattico riservato, Associazione Culturale Medialab Research per lo sviluppo della Ricerca sulla Comunicazione e Potenziale Umano (www.medialab-research.com).

 

2 Vedi in materia l’articolo di Lynch Jr. John G., Richard G. Netemeyer, Stephen A. Spiller, Alessandra Zammit (2010), A Generalizable Scale of Propensity to Plan: The Long and the Short of Planning for Time and for Money, in Journal of Consumer Research, Vol. 37, June 2010

 

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©Copyright. Testo estratto dal volume di Daniele Trevisani “Strategic Selling. Psicologia e Comunicazione per la vendita”, Franco Angeli editore, Milano, 2011. Vietata la copia o riproduzione non autorizzata. Per contatti, vedi Studio Trevisani Formazione, Consulenza e Coaching.