La Motivazione

Il bisogno di Essere, il bisogno di Vivere, il bisogno di Agire… Trovare le strade che funzionano nel nostro viaggio personale

Di: dott. Daniele Trevisani – Fulbright Scholar, esperto in Potenziale Umano, Formatore Aziendale e Personal Coach di Manager e Imprenditori presso www.studiotrevisani.it – Sensei 8° Dan del Sistema Daoshi

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© Articolo elaborato dall’autore, con modifiche, dal volume “Il Potenziale Umano” di Daniele Trevisani, Franco Angeli editore, Milano. Approfondimenti del volume originario sono disponibili anche al link www.studiotrevisani.it/hpm2   –

Chi è interessato a riprodurre o citare l’articolo deve chiederne autorizzazione scritta all’autore, via email. L’indirizzo di email è visibiile sul sito www.studiotrevisani.it – Non sono ammesse modifiche al testo.

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In ogni individuo esistono, in vari momenti della vita, necessità non risolte, desideri, ambizioni, ma anche urgenze cui dare risposta, come:

  1. il bisogno di sentire un’immagine di sé positiva,
  2. l’orgoglio per qualcosa che abbiamo fatto o vorremmo fare, in grado di motivarci,
  3. il bisogno di avere amici, amici veri, con cui parlare in profondità e non stare alla superficie delle cose
  4. il bisogno di status interiore (es, essere uno che lavora su qualcosa e non ha mollato i propri sogni)

Esistono tanti diversi modi per motivarsi: il bisogno di riscatto, il bisogno di esplorazione o superamento dei limiti personali, o bisogni economici e materiali. Ma esistono anche bisogni spirituali e trascendentali.

Il bisogno di chiedersi chi siamo, di sentire un senso superiore nella vita, che non sia comprare l’ultimo modello di cellulare.

Se se tali stati di insoddisfazione o aspirazione vengono canalizzati verso obiettivi o goal positivi, fattibili, può scattare un’attivazione sana. In caso contrario, tutto ciò che non riusciamo a canalizzare in energie positive ci distrugge da dentro, come una bomba inesplosa che perda il proprio liquido corrosivo.

Le necessità o bisogni hanno un doppio effetto (sia negativo che positivo) sulle energie mentali. Ad esempio, il bisogno di riscatto può produrre energie e mobilitare all’azione (voglia di emergere, voglia di “far vedere chi sono” o “far vedere cosa valgo”, “dimostrare che ce l’ho fatta”), ma allo stesso tempo la sua eliminazione può liberare energie prima racchiuse e concentrate in quel drive e renderla utilizzabile per altri obiettivi. E’ la stessa cosa che succede

quando finisce una relazione che non funzionava più. Improvvisamente si scopre il vuoto, e il vuoto fa paura, ma permette anche di correre meglio.

Il problema è quindi se il drive motivazionale assorba la giusta dose di energie e ne lasci altre disponibili. Il concetto di Self-Leadership Motivazionale, riguarda la capacità del soggetto nel liberarsi dalla “frenesia di risultato” e trovare motori profondi per i propri obiettivi, gestendoli senza farsi gestire da essi.

 Trovare il formato motivazionale che funziona

Tra i temi fondamentali da trattare si trova quello della percezione del task da compiere. Ogni task (compito) può avere letture diverse. Fare una ripresa di combattimento può essere un compito che carica di energie che fa paura nella sua stessa sola idea. Può caricare o distruggere, motivare o demotivare.

Un task può essere demotivante se affrontato con lo spirito sbagliato, e motivante se si trova lo spirito giusto con cui affrontarlo.

Non tutti i tipi di “spirito” o disposizione mentale funzionano nello stesso modo, e ciascuno dovrà trovare in sé o con l’aiuto del coach l’assetto mentale o format che più riesce a motivarlo.

Ad esempio, Victor Martinez, professionista di bodybuilding, afferma:

 

Io affronto una sfida contro me stesso e sono un gran lavoratore. Quando mi dicono di divertirmi alle gare, io penso che non è affatto così, perché è il mio lavoro. Nessuno dice a uno di andarsi a divertire in ufficio tutti i giorni alle nove di mattina, no? Io faccio il mio lavoro con il massimo impegno, e anche di più[1].

 

In questa testimonianza notiamo che il format motivazionale operativo, che funziona su questo atleta, è il costruire un concetto di “lavoro serio” nel suo programma di allenamento, una professionalizzazione di quello che per altri è un normale svago o passione (la palestra), facendolo diventare sfida contro se stesso, e non necessariamente un divertimento.

Per altri, questo format può invece essere distruttivo.

Questo atleta ha trovato un formato motivazionale che funziona su di sé, ma lo stesso formato applicato ad un suo collega potrebbe non funzionare o essere invece fonte di frustrazione continua e portare all’abbandono.

Su ogni persona è necessario un grande lavoro di personalizzazione.

Personalizzare la motivazione è un forte lavoro di coaching e formazione.

La motivazione si ritrova per molti nel format della sfida contro altri: per alcuni, il senso della sfida rimanda ad una visione di sé epica, maestosa, leggendaria, ed è il driver interiore più forte quando si tratta di produrre una performance in alcuni campi di battaglia professionale. In altri casi, il format si arricchisce di più strati motivazionali, ad esempio, sfida + contributo.

Nel caso seguente notiamo come si vadano a stratificare il format della sfida contro il nemico assieme al format della sfida contro la lesa maestà (sfida all’immagine di sé). I due motori psicologici, sommati, aumentano l’effetto.

La testimonianza è tratta da un intervista ad un combattente professionista, nella quale possiamo notare come l’energia della sfida, se ben canalizzata, possa produrre un dose supplementare di energie per la preparazione di se stessi:

 

Intervistatore: Quasi tutti ti davano per spacciato contro Tito Ortiz…

Tutti lo credevano imbattibile, tutti credevano che nessuno lo potesse battere nella categoria dei 93 chili, ma io ero li…. Ero anche pronto ad affrontarlo senza ricompensa, volevo questo titolo. Seriamente, mi ha fatto incazzare essere li e sen

tirli parlare come se io non rappresentassi la benché minima minaccia per lui.

Ciò ti ha offeso? Ma, non veramente. Ciò mi ha dato ancora più energia, mi ha fatto allenare ancora più intensamente[2].

 

I format motivazionali non devono essere unicamente o necessariamente mossi dal motore psico-agonistico. Altri possono trovare motivazione su un fronte opposto, nel format della “relazione di aiuto” (aiutare gli altri), o nell’espiazione (impegnarsi per scontare una pena), o nella vendetta (impegnarsi contro), o per una causa in cui credono (impegnarsi per).

In ogni caso, il lavoro del coach deve consistere nel trovare quale format motivazionale possa meglio funzionare sul soggetto, ma anche localizzare e rimuovere i format attivi sbagliati, che agiscono ora come modello errato e possono risultare distruttivi o controproducenti per la persona stessa, sebbene essi possano risultare buoni per altri, o aver funzionato in passato.

Ciò che ha funzionato in passato, in un contesto diverso può non avere più lo stesso effetto, o diventare persino controproducente. L’esame qui deve essere assolutamente situazionale e personalizzato.

In ogni sfida che ci attende, chiediamoci se stiamo cercando la componente del “divertimento” che può attenderci, la componente della “scoperta”, del “superamento” di un nostro limite. Proviamo a respirare a pieni polmoni l’aria di questo modo di vivere le cose, ci farà bene.

 

Dott. Daniele Trevisani

 

 

Note sull’autore:

 

dott. Daniele Trevisani (www.danieletrevisani.com), Fulbright Scholar, consulente in formazione aziendale e coaching (www.studiotrevisani.it) insignito dal Governo USA del premio Fulbright per gli studi sulla Comunicazione nel 1990, è Master of Arts in Mass Communication alla University of Florida e tra i principali esperti mondiali in Sviluppo del Potenziale Umano.

 

In campo marziale e sportivo, è preparatore certificato Federazione Italiana Fitness, praticante di oltre 10 diverse discipline, Maestro di Kickboxing, Sensei 8° Dan Sistema DaoShi® Bushido www.daoshi.it  – formatore di atleti e istruttori di Muay Thai, MMA, Kickboxing, Karate  (Kumite), Taekwondo, Full Contact, Sanda, K1, Autodifesa. E’ stato agonista negli USA nei trofei di Karate Open Interstile e campione universitario USA alla University of Florida.


[1] Berg, M. (2006), La svolta di Victor, Flex, n. 4, pp. 70-79. Rif. p. 75.

[2] AA.VV. (2004), IceMan Chuck Liddell, Reportage da “Fight Sport”, n. 2, ottobre, p. 30.

Come tu mi vuoi. La customization nelle strategie di marketing

A cura di: dott.ssa Manuela Fragale

Postfazione di: dott. Daniele Trevisani www.studiotrevisani.it

 Il consumatore acquista una determinata marca perché associa ad essa: caratteristiche salienti, favorevoli e uniche, cioè non condivise dalle marche concorrenti, che concorrono a determinare un vantaggio competitivo o una proposta di vendita unica; elementi di differenziazione (point of difference) unici e significativi; un giudizio favorevole almeno quanto i giudizi sulle marche concorrenti, in modo che questi ultimi fungano da elementi di parità (point of parity) e annullino i potenziali elementi di differenziazione relativi alle marche concorrenti, fornendo una ragione per non acquistare i prodotti antagonisti. Tanto il vantaggio competitivo quanto l’unicità della proposta di vendita possono essere “suggeriti”, più o meno consapevolmente, dal consumatore e adattati ai suoi desideri tramite azioni di customization che mirano ad innalzare il livello del valore di marca percepito dal consumatore.

Quali elementi conferiscono valore alla marca?

La marca trae il suo valore dall’interazione delle funzioni, delle differenze di performance, dell’immagine, della source of authority: in poche parole, dalla brand essence. Mediante l’analisi della brand essence (1), e quindi tramite l’identificazione e l’uso dei più salienti intangible brand assets, qualsiasi azienda può decostruire ed eventualmente ricostruire gli elementi che rendono forti e vincenti le marche. Infatti, la presenza di un elevato grado di chiarezza in merito alle componenti della brand essence indica forti brand essences; al contrario, le impressioni confuse sulla missione della marca, unite ad una immagine povera, ad una personalità irrilevante e ad una source of authority malvista o inaffidabile, suggeriscono brand essences deboli. A differenza di quanto avviene per le comunicazioni pubblicitarie che variano di volta in volta, la brand essence cambia raramente, vale per il lungo termine, ed è da considerare alla pari di una dichiarazione di missione. L’analisi della brand essence si rivela utile se applicata in uno studio volto a decidere un significato della marca che sia condivisibile tanto dall’azienda quanto dal consumatore, a mantenere l’integrità della marca, a impostare le strategie di comunicazione e le idee riguardanti lo sviluppo di nuovi prodotti. Più semplicemente, si può affermare che il valore della marca è fondato su una serie di elementi, quali:

  • la fedeltà dei consumatori (intesa come comportamento d’acquisto ripetuto nel tempo da una singola unità decisionale di spesa nei confronti di una data marca);
  • la notorietà della marca stessa;
  • la qualità percepita, con particolare riguardo alle funzioni che il prodotto/servizio può svolgere;
  • i valori associati alla marca (quelli comportamentistici e che potenziano il prodotto e/o il servizio);
  • altri valori che proteggono la marca: licenze, marchio, relazioni con i canali.

Oltre il rapporto prezzo-qualità: il brand value per il consumatore

Da varie ricerche è emerso che, spesso, il valore percepito dal consumatore non consiste soltanto in un generico e banale trade-off tra qualità relativa e prezzo relativo ma comprende anche le nozioni di prezzo percepito, qualità, benefici, sacrifici. Proprio il trade-off tra benefici e sacrifici percepiti è preso in considerazione nella definizione di valore percepito (2): più in particolare, ci si può soffermare sugli attributi intrinsechi ed estrinsechi del prodotto quali: la texture, la qualità, il prezzo, la performance, il servizio, il brand name. Per identificare e determinare quantitativamente il livello di valore percepito, si può utilizzare il Valuemap (3): tale metodologia fa riferimento alle diverse combinazioni di prezzo e qualità relativi; tiene conto sia della valutazione simultanea dei parametri riguardanti la posizione della marca – in termini di percezione del valore e di pesi assegnati dai consumatori alle dimensioni – sia della segmentazione dei consumatori in uno spazio joint-dimensional; consente di tracciare la mappa del valore percepito, dedotto empiricamente tramite i dati raccolti dai consumatori. Il consumatore riconduce il valore della marca alle funzioni svolte dalla marca durante il processo d’acquisto (4), che possono essere riassunte in: funzione informativa, funzione di garanzia, funzione comunicativa. La prima consente una diminuzione dei costi di ricerca e l’agevolazione dei processi di comparazione e apprendimento; la seconda riduce i costi psicologici (rischio e incertezza), i costi di ricerca, i costi di produzione delle informazioni; la terza aumenta il valore percepito sul piano simbolico.

 

Customization: più valore con prodotti ad hoc

L’impresa può dar vita al processo di creazione del valore interagendo quotidianamente con il consumatore, sfruttandone e valorizzandone la conoscenza, l’esperienza, le aspettative, i desideri, i bisogni, le priorità, il modo di vivere. Confrontandosi con consumatori sempre più qualificati ed egocentrici, inoltre, si vede costretta a impegnarsi nel processo di costruzione del valore nell’ambito di una company culture sempre più customer oriented. Il consumatore, quindi, può entrare a far parte di tale processo già nello stadio di progettazione del prodotto e, di seguito, nello sviluppo, nella produzione e nell’acquisto (acquistando o rifiutando il prodotto); nel caso dei servizi invece, il cliente è, per definizione, parte del processo produttivo. L’interazione durante il processo di produzione è definita customization del prodotto (5): in effetti, il prodotto viene presentato ai clienti  in più di una versione, oppure arricchito con particolari dettagli, al fine di accontentare le esigenze più diverse. Molte aziende ricorrono alla customization, combinando la vecchia logica della produzione di massa  con le preferenze individuali, in maniera tale da poter offrire prodotti progettati individualmente allo stesso prezzo (o quasi) della produzione di massa. La flessibilità della produzione, unita alla rapida espansione delle tecnologie informatiche, ha consentito ai produttori di interagire su base individuale con i clienti e di aggiungere un tocco personale ai prodotti/servizi desiderati, rendendo più efficiente il processo di consumo. Ciò ha comportato una alterazione decisiva dell’intera mappa mentale unitamente alle prospettive sul ruolo del consumatore. Questi, infatti, non è più considerato un ricevente passivo ma un partecipante attivo nella progettazione del prodotto/servizio e nella creazione del valore; dunque, il consumatore diventa coproduttore. Complessivamente, la customization è emersa nei settori più disparati: per quanto concerne i capi d’abbigliamento, la relazione produttore-cliente è diventata tanto proficua da consentire di anticipare le tendenze della moda per l’anno a venire; nel settore farmaceutico hanno esordito pillole-su-misura soggette ad addizioni o a sottrazioni di vitamine e/o sali minerali sulla base dell’ordinazione del cliente; prestigiose catene alberghiere hanno introdotto una personal card nella quale vengono registrati i desideri e le necessità più svariati; sono stati offerti prodotti cosmetici la cui formula veniva suggerita da un sistema diagnostico computerizzato che analizzava il tipo di pelle del consumatore; qualche casa automobilistica ha previsto la progettazione congiunta del consumatore e del venditore nonché la sperimentazione, sullo schermo del computer, di dettagli alternativi applicati al complesso dell’automobile. Neppure i bambini sono stati risparmiati dalla rincorsa alla customization da parte delle aziende produttrici: si è offerta loro la possibilità di ordinare la bambola dei loro sogni, con riguardo al colore e al taglio dei capelli, al colorito della carnagione, al colore degli occhi, al vestiario, al nome e addirittura  alla personalità della bambola. Si è giunti, insomma, ad una conclusione quanto mai sorprendente: la possibilità di scelta finisce per avere importanza più rilevante rispetto alla marca.

 

Il ruolo della customization nella customer satisfaction

Lo sviluppo di un prodotto/servizio di successo si fonda sulle capacità di analisi e di attivazione delle aspettative e delle preferenze dei clienti, sulla ricostruzione del customer value model mediante l’identificazione degli attributi critici di un prodotto/servizio desiderati che, essendo connessi sul piano cognitivo ai benefici attesi, influenzano le percezioni di valore. Al fine di gestire efficacemente la customer satisfaction (6) è necessario quantificare, attraverso un sistema integrato di indicatori, dei gap di sintonia, di valore, di percezione, di progettazione, di realizzazione, di allineamento, di coinvolgimento, di comunicazione e consonanza. Particolarmente insidioso è il “gap di sintonia”, ascrivibile, in linea generale, ad una lacunosa conoscenza dei clienti, e riconducibile a tre specifiche cause:

  • elevata differenziazione delle esigenze dei clienti e conseguenti complessità e articolazione della domanda;
  • difficoltà di comunicazione ed espressione di bisogni e desideri da parte dei clienti;
  • manifestazione, da parte dei clienti, di esigenze mutevoli e di aspettative crescenti legate tanto alle prestazioni standard del prodotto/servizio quanto alla disponibilità di servizi complementari personalizzati.

La verifica costante dell’allineamento dell’offerta rispetto alle aspettative e alle esigenze dei consumatori, dunque, può scongiurare il pericolo di incorrere in un gap di sintonia. Appare evidente che in tale contesto assume un ruolo strategico la customization: un cliente attivo, coproduttore, capace di progettare in sinergia con l’azienda il prodotto/servizio desiderato e più rispondente alle proprie esigenze, capace di fornire esplicitamente o implicitamente al management informazioni sulle proprie necessità e aspettative, consentirà all’azienda stessa di apportare correzioni tempestive che assicurino un costante allineamento dell’offerta.

 

L’esordio della customization nel settore editoriale

La libreria è il luogo che custodisce temporaneamente – in attesa che qualcuno decida di farle proprie con una scelta d’impeto mossa dall’emotività o con una scelta razionale basata sulla lettura di recensioni e sulla conoscenza di autori e argomenti – le parole, le immagini e le emozioni legate agli accadimenti reali e alle storie frutto della fantasia. A scandire la successione precisa si susseguono scaffali ordinati, settori precisi, dorsi e copertine ben allineati. D’un tratto, però, qualcosa risalta all’occhio: un dettaglio sulla copertina agisce da interruzione. È quanto avviene in questo periodo nelle librerie italiane. Il colore, il volto di donna, il nome dell’autore, il titolo del libro, rispettano uno schema standard; a differire, declinato in quattro varianti, è il fiore che la donna stringe tra le dita. “Bouganvillea: passione, camomilla: forza nelle difficoltà, gerbera: allegria, rosa: grazia ed eleganza. Quattro fiori, quattro significati, quattro copertine diverse. Scegli quella che preferisci in libreria”. Questo lo slogan pubblicitario ideato per promuovere il libro facendo leva sulle più profonde risorse cognitive del consumatore. Basta dare una scorsa alla trama del racconto per capire che la varietà floreale ha una complementarità simbolica con la storia della protagonista; ma non è tutto. Occorre guardare oltre per capire che si tratta di un’arguta strategia di marketing imperniata sul processo di creazione del valore della marca. La storia contenuta nelle quattro versioni del libro si dipanerà, pagina dopo pagina, seguendo un identico schema narrativo, con l’uso di identiche parole e identica punteggiatura; dunque, qual è l’attributo critico delle differenti versioni del libro capace di influenzare la percezione del valore? Visibile a chi è seduto di fronte al lettore, la copertina del libro fornisce indicazioni sul livello culturale, sui gusti, sulla personalità del lettore stesso; terminata la lettura, il libro viene solitamente lasciato su un ripiano con la copertina ben visibile e pronta a diventare un elemento di arredo. Il fiore prescelto quindi, fornirà al mondo esterno un ulteriore spunto di riflessione sulla personalità del lettore, si adatterà tanto allo stato d’animo del lettore quanto all’aspetto estetico della sua abitazione, rafforzerà nel lettore la sensazione di essere stato il destinatario di un’offerta d’acquisto unica.

 

Conclusioni

Il caso di customization sopra trattato racchiude gli elementi fondamentali della creazione del valore, a conferma che un solo dettaglio è suscettibile di  attivare nel consumatore associazioni mentali importanti e decisive per l’innalzamento del livello del valore di marca percepito dal consumatore. Grazie alle azioni di customization, la perdita del carattere di standardizzazione, la possibilità di scegliere una determinata versione del prodotto, la possibilità di accedere a una versione del prodotto capace di esprimere la personalità del consumatore, rendono unica la proposta d’acquisto. In un’ottica di creazione del valore e di superamento del gap di sintonia, dunque, la customization diventerà un imperativo e le strategie di marketing saranno sempre più imperniate sul ruolo del consumatore- coproduttore: la flessibilità della produzione e le avanzate tecnologie informatiche consentiranno al consumatore non soltanto di aggiungere un tocco personale ai prodotti/servizi, come già avviene, ma anche di intervenire come coprogettista del prodotto desiderato.

 

 

NOTE

(1) Rubinstein H., 1996, “Brand first” management, Journal of Marketing Management, vol.12, n.4, May, 269/280

(2) Zeithaml V.A., 1988, Consumer perceptions of Price, Quality, and values. A Means-End Model and Synthesis of Evidence, Journal of Marketing, July, 2/22

(3) Sinha – De Sarbo, 1998, An integrated approach toward the spatial modelling of perceived customer value, Journal of Marketing Research, May, 236/249

(4) Kapferer – Laurent (a cura di), 1991, La marca, Guerini e Associati, Milano

(5) Wikström S., 1996, Value creation by company-consumer interaction, Journal of Marketing Management, 12, 359/374

(6) Valdani – Busacca, 1995, La customer satisfaction: specificità, analisi e management, Micro & Macro Marketing, A. IV, n. 3, dic, 315-342.

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Note sull’autore

Manuela Fragale è  Giornalista Pubblicista e Dottore Commercialista.

Ha conseguito la Laurea in Scienze Economiche e Sociali, a indirizzo economico, presso la Facoltà di Economia dell’Università degli Studi della Calabria, Dipartimento di Organizzazione Aziendale e Amministrazione Pubblica, discutendo la tesi sperimentale in Marketing “Le politiche di co-branding. Analisi di casi aziendali”. Si è specializzata con il Corso di Alta Formazione post lauream “Il giornalismo economico. Comunicare e informare al servizio di giornali, imprese e istituzioni” e con il Corso post lauream “Nuovi media per il giornalismo e la comunicazione pubblica”. Dal 2001 è collaboratrice di diverse testate giornalistiche italiane ed estere, docente di giornalismo economico, responsabile di uffici stampa.

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Customizzazione della formazione aziendale, dei prodotti, e oltre

Di Daniele Trevisani www.studiotrevisani.it

Un risveglio farebbe bene non solo alle persone ma a tutti coloro i quali sognano aziende in cui esprimersi e generare qualcosa sia possibile, e non luoghi dove soffrire, timbrare un cartellino per uscirne prima possibile. Le idee esistono, in azienda sono però i soffocatori di idee che prevalgono. A quando una macchina della quale si possa scegliere il “guscio esterno” scegliendo tra “sportivo”, “elegante”, o “aggressivo”? Intendiamo un semplice guscio di plastica, applicato sopra alle parti di metallo, come una cover su un telefonino. Questa e altre sono possibilità concrete, creative, fattibili. Sicuramente pensate da qualcuno, e da qualcuno bocciate.

Se entriamo nella sfera dei servizi, troviamo lo stesso problema. Modularità, personalizzazione, Tailoring, sono parole chiave che vanno di moda nella formazione aziendale. Peccato che molti “corsifici” ne parlino solo astrattamente, mentre per un lavoro seriamente personalizzato è indispensabile uscire dal concetto di “corso” ed entrare nella sfera degli “interventi centrati sul partecipante”, composti da analisi iniziali, esperienze formative (diversificate) – per poi e ripartire dall’inizio, con un loop che può durare anni ed anni, e non solo qualche giorno, concluso con la consegna di un bell’attestato finale.

E se parlassimo di prodotti?

In altre parole, la strada della personalizzazione è aperta. I metodi esistono. Occorre solo la volontà di applicarli. Occorre energia, volontà, rigore morale e non appiattimento manageriale. Occorre risvegliare l’archetipo “eroico” e “creativo” che per tanti anni ha contraddistinto l’Italia e che in troppi settori sta venendo meno.

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Profilo dell’autore

Daniele Trevisani, formatore aziendale, consulente di direzioneDaniele Trevisani, scrittore, formatore aziendale, consulente Senior, è autore dei Best Seller Psicologia di Marketing e Comunicazione e Il Potenziale Umano, editi da Franco Angeli (Milano). E’ tra i principali esperti italiani in comunicazione e Strategic Selling, sviluppo manageriale, formazione e potenziale umano.

Dirige le attività di Studio Trevisani Formazione Aziendale dove si occupa di formazione, coaching e consulenza, come esperto di livello internazionale. Abbina alle attività di formazione aziendale una esperienza di oltre 25 anni nel coaching sportivo di agonisti, di team, squadre e atleti individuali, aree dalle quali trae metodi utilizzati in azienda per realizzare formazione efficace e coaching di alto livello per dirigenti, amministratori, manager e team aziendali.

Piramide dei Bisogni di Maslow

Articolo a cura di: dott. Daniele Trevisani, Esperto in Formazione, Coaching Aziendale, Team Coaching e Potenziale Umano, Direttore Studio Trevisani.

La Piramide di Maslow evidenzia i possibili livelli di bisogno che gli individui sperimentano nella vita, o in diverse fasi della propria esistenza, e costituiscono tra l’altro il motore principale di ogni decisione di acquisto. Sono possibili sia bisogni singoli che bisogni multipli.

Nel mio volume Psicologia di Marketing e Comunicazione ho potuto argomentare come i bisogni esposti nella piramide di Maslow siano meglio comprensibili apportando lievi variazioni, che non ne alterano la sostanza ma rispondono meglio alle esigenze delle imprese di capire i propri clienti e le loro motivazioni.

La modifica pubblicata nel volume è la seguente:

Nella quarta classe, Maslow include anche la funzione di autostima, mentre nell’approccio ALM essa è stata da noi spostata all’ultimo gradino della piramide, per meglio evidenziare la differenza tra (1) prodotti con potere di auto-immagine (azione su se stessi), i quali hanno l’obiettivo di modificare o migliorare  l’immagine di sè, e (2) prodotti con funzione di etero-immagine (azione sugli altri), i quali vengono acquistati con l’obiettivo di elevare o modificare l’immagine che gli altri hanno dell’individuo.

Nel metodo ALM abbiamo diviso i bisogni ambientali in due categorie: bisogni ambientali fisici (temperature, aria, calore, umidità, spazi sufficienti al movimento, luoghi di vita e lavoro, ecc..) e bisogni ambientali psicologici (i climi organizzativi sul lavoro, gli ambienti umani e relazionali, lo stare bene in famiglia o con gli altri, con i propri vicini o amici).

Per ulteriori informazioni sul volume, vedi Psicologia di Marketing e Comunicazione

Co-branding e associazione tra marchi: analisi nel mercato del trasporto aereo

Volando verso il successo. Casi di co-branding aereo di fine Novecento

di: Manuela Fragale. Postfazione di Daniele Trevisani

 Oltre un decennio fa nel contesto ipercompetitivo caratterizzato dalla “battaglia delle marche” – che ha provocato, come reazione, il successo di prodotti anonimi e a buon mercato – si inseriva il co-branding: una soluzione marketing-based, consistente in un accordo laterale, utilizzata da molte aziende per prevenire l’abbandono dei propri prodotti e servizi in favore di equivalenti a costi ridotti e unbranded. La strategia di co-branding definita, in maniera semplice ma efficace, come l’uso congiunto di più brand names nell’offerta di un singolo prodotto o servizio, consiste, più precisamente, nell’associazione di una marca primaria e di una marca secondaria ed è utilizzata per incrementare le vendite della marca primaria valorizzandone la valutazione da parte dei consumatori. La strategia di co-branding è considerata, dal management, anche in grado di influenzare l’investimento sostanziale finalizzato a consentire alle proprie marche l’accesso a nuovi mercati. Perciò, nell’effettuare una azione di co-branding devono essere tenute presenti le seguenti raccomandazioni:

  • guardare al proper fit. Se i prodotti/servizi dell’azienda alleata forniscono un forte complemento, il co-branding indirizza il prodotto ad un nuovo segmento di mercato o ne rinforza il valore nei segmenti-obiettivo esistenti.
  • anelare ad alleanze che consegnino una autorevole proposizione di valore. In tutti gli accordi di co-branding è importante assicurare che il prodotto o servizio risultante fornisca autorevole valore ai consumatori.
  • assicurarsi che la marca riceva una buona esposizione sul packaging, in pubblicità, e negli altri mezzi usati per promuovere i prodotti/servizi.

Parlare di azioni di co-branding sic et simpliciter non è, però, esatto; più correttamente si deve effettuare una fondamentale distinzione tra le due tipologie fondamentali in cui le stesse azioni si articolano: il make-in (anche detto ingredient co-branding nel settore food) e  il  joint advertising (imperniato sulla complementarità tecnica o sulla complementarità simbolica). (1)

Azioni di make-in di fine Novecento

La tipologia di co-branding nota con il nome di make-in (2) riposiziona un prodotto di marca usando una marca esistente caratterizzata da associazioni complementari di attributi, valorizza le prominenze percepite dell’attributo, valorizza i livelli di performance del concetto di marca originale o primario. Più forte è il legame che unisce la marca alla categoria di prodotto nella mente del consumatore, più probabilmente i consumatori riconoscono la marca, ricordano la marca con e senza spunti, collocano la marca nel consideration set. (3) Il panorama pubblicitario di fine Novecento mostrava interessanti spunti di riflessione in merito alle politiche di co-branding, in generale, e, in particolare, alla tipologia definita make-in. Soprattutto, a destare curiosità nel pubblico, erano gli spot di alcune compagnie aeree che, per migliorare la propria redditività, avevano pensato di ricorrere alla pubblicità in modo originale: non esibendola a bordo ma mettendola in bella mostra sulle fusoliere dei propri aeromobili. Infatti, con una pellicola plastica ultraresistente venivano applicati sulle fusoliere i vari messaggi pubblicitari, contraddistinti da colori forti e letterings visibilissimi, molto chiari e spiccati. Questa forma di make-in, particolarmente adatta per campagne estremamente mirate e di durata piuttosto breve, venne adottata con successo da Alitalia, Crossair, Cathay Pacific, British Airways. Alitalia esordì in questa pratica con la campagna co-branding assieme alla Perugina, adottando un look certamente suggestivo: il blu del cielo stellatissimo (habitat ideale dell’aereo, tipico del package di Baci Perugina) e il messaggio “Baci dall’Italia, Baci da Alitalia”. Assonanze fonetiche, richiamo emotivo immediato in un luogo, l’aeroporto, nel quale il saluto di arrivederci o di benvenuto può essere sottolineato con il dono “Baci Perugina” o, comunque, aumenta l’incisività del messaggio. Ecco, dunque, gli effetti: per Baci Perugina, un ritorno di “visibilità” anche (o soprattutto) all’estero; per Alitalia, una connotazione di affettuosità e gentilezza nell’accogliere i passeggeri con dei Baci Perugina, in un tenero e confortevole abbraccio. Dopo il successo della prima campagna di co-branding, Alitalia pensò di insistere – nelle rotte intercontinentali per USA, Sud America, Estremo Oriente e Australia – avvolgendo le fusoliere dei suoi jumbo-jets (trasformate, per l’occasione, in giganteschi polsi volanti) in una riproduzione di Aluminium, l’ultimo orologio firmato Bulgari. Nel caso in esame prevalse l’abbinamento del made in Italy, del prestigio dell’arte orafa di Bulgari e dei contenuti tecnologici di quell’orologio. Poi la scelta rimarcata del partner: “Bulgari Aluminium flies with Alitalia”. Elemento importante per Alitalia era la solida cultura del made in Italy dei partners perché tali iniziative di co-branding erano soprattutto operazioni di immagine messe a punto da grandi marche senza pensare a ritorni commerciali immediati. La compagnia aerea svizzera Crossair, filiale di Swissair, si legò, invece, alla campagna Mc Donald’s Hotelplan, allestendo un proprio aeromobile dipinto all’esterno e decorato all’interno con i colori e il marchio di Mc Donald’s. Mc Donald’s tendeva ad essere un linguaggio universale, capace di superare le frontiere nazionali in un costante tendere all’espansione del marchio (specialmente in Europa, dove registra i tassi di crescita più interessanti): dunque, non esisteva miglior partner di Crossair, compagnia giovanissima e con l’aspirazione a superare le frontiere nazionali e a imporsi dapprima in Europa e poi oltreatlantico. Comunanza di intenti e sinergia degli sforzi facilitavano l’affermazione di ambedue i marchi. Di grande effetto fu, poi, la campagna co-branding di Cathay Pacific con Hong Kong.  Rilevava innanzitutto la particolarità della pubblicità non di due marchi bensì di un marchio e di una città, quest’ultima richiamata con il suo profilo sulla fusoliera di un Boeing 747; poi, in modo indiretto, la pubblicità ad Hong Kong come essenza dell’economia più libera del mondo e al suo dinamismo. Il profilo di Hong Kong richiama quello di una chiave: la chiave del successo in campo finanziario, nelle comunicazioni, nei trasporti. In certo senso era obbligata, quindi, la scelta di Cathay Pacific (compagnia leader nei trasporti aerei per questa destinazione e per l’Estremo Oriente in genere, caratterizzata da elevato dinamismo ed efficienza) per l’abbinamento nel make-in. Infine, il caso che coinvolgeva gli aeromobili Concorde di British Airways. Il Concorde era uno splendido esempio di straordinaria ingegneria, ma la sua redditività era terribile, tanto da costringere al pagamento di biglietti di importo stratosferico e alla portata di una ristretta cerchia di clienti ricchissimi. Partendo da questi presupposti, British Airways si impegnò nella ricerca della clientela più ricca in assoluto: gli arabi degli Emirati. E lo fece mentre Pepsi Cola cercava di penetrare negli stessi mercati. L’occasione spinse i due marchi all’intesa con finalità di ritorni commerciali immediati. (4)

Azioni di joint advertising di fine Novecento

Secondo la scuola concorrenziale (o informativa) i messaggi pubblicitari svolgono un’azione informativa riguardo agli attributi ed alle caratteristiche dei prodotti, incrementano il grado di conoscenza dei consumatori rendendoli più sensibili al prezzo, abbassano le barriere all’entrata e facilitano l’ingresso di nuovi competitori in un settore. Di conseguenza, all’interno del settore restano solo le imprese efficienti. Se si accetta tale teoria, si comprende pienamente il ruolo svolto dal joint advertising. Esso si basa sulla complementarità tecnica quando, enfatizzando gli attributi funzionali delle marche coinvolte, consente di dimostrare che i loro prodotti sono efficaci (ed efficienti) non solo se utilizzati singolarmente ma anche se utilizzati insieme a prodotti complementari. Il joint advertising basato sulla complementarità simbolica, invece, mira a enfatizzare quelle caratteristiche della marca capaci di destare una risposta emotiva nei consumatori. Il joint advertising è particolarmente vantaggioso per le nuove marche e per le marche che entrano in nuovi mercati perché consente loro di sviluppare brand awareness e brand knowledge facendo leva sulle forze di alleati già consolidati e sulla divisione dei costi. Per valorizzare le marche con attributi funzionali, è possibile utilizzare due strategie di posizionamento: la “problem-solving specialization” e la “problem-solving generalization”. (5) La prima aumenta il valore della marca rivolgendosi a bisogni più specifici, adattandosi a specifiche situazioni d’uso; è utile quando i prodotti divengono tecnicamente complessi, i bisogni più specializzati, e i mercati più frammentati; consente all’azienda di concentrarsi su un segmento ristretto con maggiore potenziale di profitto. La seconda ha come obiettivo rendere la marca utile attraverso una varietà di situazioni d’uso disparate. Nel campo del joint advertising basato sulla complementarità simbolica si collocava la campagna pubblicitaria Airone-Diesel, mirata a promuovere l’immagine simbolica e ad accentuare le caratteristiche della marca primaria. La compagnia aerea Airone, all’epoca di recente costituzione e tutta improntata al dinamismo e all’affermazione di un’immagine giovane, si legò in joint advertising con Diesel, azienda vicentina produttrice di jeans, abbigliamento casual e accessori. Diesel era già un’azienda di successo, ancorché giovane, caratterizzata da una immagine di buona qualità, presente in più di diecimila punti vendita in oltre ottanta Paesi, entrata a buon diritto nel ristretto numero delle aziende portavoce del made in Italy nel mondo (esportava l’85% della produzione). La sua filosofia di comunicazione si basava su messaggi “soft” privi di violenza e/o arroganza. Considerate queste doti, appare chiara la scelta di Airone: attributi simbolici quasi identici, voglia di misurarsi in un contesto più vasto, con la consapevolezza di potersi imporre anche nella lotta con concorrenti ben più grandi (ma meno agili). E, non a caso, nello spot televisivo si aveva modo di assistere alla dichiarazione di una dirigente Diesel, tranquillamente seduta sull’ala di un aeromobile: “Anche noi voliamo Airone”.

Effetti del co-branding nelle diverse configurazioni

I casi di make-in selezionati, attinenti al settore degli aviotrasporti, dimostrano come marche (apparentemente) molto distanti tra loro possano non soltanto effettuare una campagna pubblicitaria (spot) condivisa ma addirittura attuare una strategia di brand extension composta, che sfocia nella creazione di un bene “unico”, che va sotto il nome della marca primaria ma che racchiude le più rilevanti associazioni di marca collegate alla marca secondaria. Tuttavia, scopo principale resta la decisione di rivolgersi a nuovi segmenti di mercato: per Alitalia-Perugina era rilevante il ritorno di visibilità all’estero; per Crossair-McDonald’s assumeva importanza l’intenzione di affermarsi sia in Europa che oltreatlantico, superando le frontiere nazionali; per British Airwais-Pepsi Cola prevaleva l’intento di penetrare nel mercato “Emirati Arabi” e di conseguire ritorni commerciali immediati; per Cathay Pacific-Hong Kong era fondamentale il rafforzamento nel mercato “Estremo Oriente”. Il caso di joint advertising Airone-Diesel analizzato, anch’esso attinente al settore degli aviotrasporti, metteva in luce la condivisione di attributi simbolici, la scelta di rivolgersi a un target giovane e dinamico più ampio. Tanto dai casi di make-in quanto dai di casi joint advertising scaturiva un processo di elaborazione delle informazioni caratterizzato dal moltiplicarsi degli spunti attuativi e dalla creazione di una pluralità di nodi nel network model, nonché – nell’ambito dei nuovi prodotti – alla produzione di  brand nodes originali. Gli spunti attuativi più rilevanti erano, tuttavia, quelli associati alla marca secondaria, la quale, generando un effetto alone, poteva trasferire la propria influenza positiva alla marca primaria o confondere la stessa con l’influenza associata alla marca primaria oppure ancora trasferirla all’intero co-branding. (6)

Conclusioni

È innegabile che il co-branding influenzi la gestione della relazione tra il concetto di marca e l’immagine di marca. Tanto nel make-in quanto nel joint advertising accade che un’azienda desiderosa di sviluppare la propria immagine di marca si appoggi all’immagine di un’altra marca per poi utilizzare diverse strategie di posizionamento atte a incrementare il valore della brand image e ad elevare il livello di utilità della marca in merito a specifiche situazioni d’uso. La condivisione di immagini simili produce: un reciproco rafforzamento delle brand images e la conseguente riduzione dei costi di comunicazione; la percezione che i prodotti complementari possono essere consumati insieme; una migliore comunicazione dell’immagine aziendale e la sensazione che l’azienda si relazioni con i bisogni in senso lato del consumatore. Inoltre, le marche coinvolte nel messaggio pubblicitario condiviso traggono beneficio sia dal proprio incremento di brand loyalty sia dall’incremento di fedeltà delle marche associate. Il make-in – proponendo al mercato prodotti completamente nuovi o miglioramenti nei prodotti esistenti – incoraggia la competizione tra prodotti, l’innalzamento di barriere all’entrata, la concentrazione di mercato, la differenziazione dei prodotti; conseguentemente, accresce la brand loyalty). Dal joint advertising scaturiscono effetti economici e sociali. Gli effetti prettamente economici riguardano il valore delle informazioni all’acquirente, il ruolo dello sviluppo di nuovi prodotti, il supporto dei media l’impatto sui costi di distribuzione, l’effetto sul business cycle, il ruolo nel creare una identificazione di marca, lo sviluppo dell’utilità di marca. Relativamente agli effetti sociali, invece, il joint advertising comunica, informa, attua un processo di pensiero, crea sentimenti che possono influenzare le attitudini e il comportamento.

Post-fazione: l’identità non è una commodity. Di Daniele Trevisani

Uno dei passaggi più trascurati nel co-branding è certamente l’effetto semiotico, la possibilità che un co-branding alteri la percezione del marchio, in positivo o in negativo, cambiandone la “semiosfera”.

Moltissime aziende potrebbero valorizzare al meglio la propria immagine dando maggiore spazio ai fornitori prestigiosi, e ad associazioni che curano valori sociali, o a fornitori specialistici che utilizzano nel realizzare i propri prodotti, e non lo fanno. Con questo atteggiamento, perdono sicuramente occasioni di sviluppo d’immagine importanti.

Altre aziende non tengono in considerazione chi sponsorizzano, cosa sponsorizzano, e che valori sociali sponsorizzano.

L’identità delle imprese non è una commodity, come il grano, l’acqua, o il sale. Qualsiasi azione nella quale il proprio marchio venga associato ad altri, sia in termini di co-branding, o di fornitore, o di cliente, ha impatti e ripercussioni sui quali riflettere ampiamente.

Ricordo il caso personale di una media impresa italiana, che amava definirsi una “piccola impresa di provincia”, senza mai far notare ai propri clienti che questa piccola impresa era il fornitore della Squadra Corse di Ferrari, per alcuni particolari meccanici di alta precisione. Il co-branding, in altre parole, è una dinamica associativa che deve farci riflettere oltre, portarci sul chi siamo, a chi vogliamo associarci, e da chi vogliamo “stare alla larga” nelle nostre associazioni mentali e comunicazioni di ogni livello.

(di: Daniele Trevisani, Fulbright Scholar, Master of Arts in Mass Communication alla University of Florida, www.studiotrevisani.it)

 

NOTE

(1) Fragale M., 2011, Strategie associative e alleanze strategiche tra marchi: il co-branding. Insieme verso il successo: il co-branding “formato famiglia”, European Marketing Psychology Journal, March.

(2) Shocker A.D., 1995, Positive and negative effects of brand extension and co-branding, Advances in consumer research, vol.22, 432/434

(3) Samu – Krishnan – Smith, 1999, Using advertising alliances for new product introductions interactions between product complementarity and promotional strategies, Journal of Marketing, vol.63, Jan., 57/74

(4) Fragale M., A.A. 1998/99, Le politiche di co-branding. Analisi di casi aziendali, Tesi di laurea, Università della Calabria

(5) Park – Jaworski – Mac Innis, 1986, Strategic brand concept-image management, Journal of Marketing, Oct., 135/145

(6) Fragale M., 2011, Sai con chi ti hanno visto in giro? Implicazioni del co-branding, tra pubblicità, fiducia e associazione tra marchi, European Marketing Psychology Journal, February. 

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Note sull’autore

Manuela Fragale è  Giornalista Pubblicista e Dottore Commercialista.

Ha conseguito la Laurea in Scienze Economiche e Sociali, a indirizzo economico, presso la Facoltà di Economia dell’Università degli Studi della Calabria, Dipartimento di Organizzazione Aziendale e Amministrazione Pubblica, discutendo la tesi sperimentale in Marketing “Le politiche di co-branding. Analisi di casi aziendali”. Si è specializzata con il Corso di Alta Formazione post lauream “Il giornalismo economico. Comunicare e informare al servizio di giornali, imprese e istituzioni” e con il Corso post lauream “Nuovi media per il giornalismo e la comunicazione pubblica”. Dal 2001 è collaboratrice di diverse testate giornalistiche italiane ed estere, docente di giornalismo economico, responsabile di uffici stampa.

Il senso del laboratorio

Chi sperimenta ha problemi diversi da chi produce per il mercato. Come ben evidenzia Stanislavskij nell’ambito delle sue sperimentazioni sul lavoro dell’attore e la tecnica psico-corporea:

“il lavoro di laboratorio non può svolgersi nel teatro stesso, con gli spettacoli giornalieri, in mezzo alle preoccupazioni del bilancio e della cassa, ai pesanti lavori artistici e alle difficoltà pratiche di una grande impresa”[4]. Nota: citazione tratta dal volume di F. RUFFINI: Stanislavskij e il “teatro laboratorio”. Pubblicato in Il Quaderno di Nessuno: saggi, documenti e letteratura teatrale, Marzo 2011, Volume 10, No. 56

Credo che questo concetto debba applicarsi anche alle imprese che sperimentano e innovano: poterlo fare in qualche misura (anche se non completamente), al di fuori dei vincoli rigidi di un resoconto di cassa trimestrale, fuori da una to-do-list rigida, fuori dagli schemi noti. E’ la condizione stessa del laboratorio: l’accettazione dell’incertezza del risultato, in un mondo che esige rigide previsioni e certezze che in realtà, nessuno, davvero nessuno, può fornire.

La coscienza di essere sperimentatori, e di fare laboratorio, richiede l’assunzione – in chi lo pratica – di un nuovo senso di  libertà dalla rendicontazione impossibile e irregimentata, di una misurazione immediata del ROI (Return of Investment) che nella formazione traduce in “una spesa di 100 e deve produrre 200 entro 1 mese”.

La cultura della sperimentazione formativa è una semina, è una sedimentazione progressiva di nutrimenti in un terreno, un dono che realizziamo a noi e agli altri, un regalo per le generazione che seguiranno, non solo per il prossimo trimestre.

La cultura dominante confonde l’innovazione vera con il cambiare i pc aziendali o i software. L’innovazione è una diversa modalità di pensare, prima di tutto. E come possiamo produrla, se non attraverso un laboratorio di formazione?

 

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Articolo d’opinione a cura di Daniele Trevisani, Formazione, Consulenza e Ricerca, www.studiotrevisani.it


Trovare dentro di sé la forza

Capacità di automotivazione e accesso ai drivers interiori (sicurezza, riscatto, autorealizzazione, esplorazione, sfida)

Di Daniele Trevisani – Fulbright Scholar, Formatore, Sensei 8° Dan Sistema Daoshi, ©  dal volume “Il Potenziale Umano” di Daniele Trevisani, Franco Angeli editore. Approfondimenti  sono disponibili anche al link www.studiotrevisani.it/hpm2 – Per riprodurre l’articolo serve  autorizzazione scritta dell’autore, indirizzo mail visibile presso www.studiotrevisani.it

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Perché allenarsi? Perché alcuni sono costanti e si allenerebbero anche con la febbre, e altri cercano ogni scusa per stare sul divano?

La voglia di essere un artista marziale non si misura solo nell’intensità che si mette in un singolo allenamento, ma soprattutto nella continuità, mese dopo mese, anno dopo anno, decade dopo decade, di “essere li”, nel Dojo, sul tatami o sul ring. Essere li a cercare chi sei. Essere li a cercare qualcosa. Senza voglia di riscatto, senza pulsioni ad autorealizzarsi, avremo solo delle amebe e non dei fighter o degli artisti marziali. La “fame” a volte fa bene.

Le energie mentali, la voglia di fare, aumentano certamente quando una persona “ha fame”. Fame di riuscire, voglia di riscatto, bisogno di affermarsi, volontà di lasciare un’impronta e un ricordo, bisogno di immortalità (in senso spirituale), sono energie mentali che, ben canalizzate, producono grande carica psicoenergetica. Serve motivazione, voglia di riscatto, allenamento, bisogno di crescita personale, forza di carattere.

Questi motori psicologici, se utilizzati male, o se prendono il sopravvento sul senso profondo della vita e la fagocitano, possono invece distruggere.

I bisogni individuati da Maslow nel modello denominato “Gerarchia dei Bisogni” (o Piramide di Maslow) sono utili per inquadrare grandi categorie di bisogno: bisogno di sopravvivenza, bisogno di sicurezza, bisogni sociali e di immagine, bisogni di amore, bisogni di autorealizzazione e di trascendenza (la pienezza umana)[1].

In termini generali, ogni tipo di bisogno compete con gli altri in termini di priorità, ma alcuni bisogni, soprattutto primari come la sopravvivenza, diventano dominanti, sino a che non sono soddisfatti. Per questo motivo il coaching non può dimenticare il bisogno di sicurezza dell’individuo e il suo viaggio verso l’emanci­pazione, anche rispetto bisogno economico, o di trovare un assetto su cui poggiare (grounding personale) per poi andare avanti.

Vogliamo ricordare una citazione di Orwell, secondo cui:

La maggior parte dei socialisti si limita a evidenziare che una volta instaurato il socialismo saremo più felici in senso materiale e presuppone che ogni problema venga a cadere quando si ha la pancia piena. Invece è vero il contrario: quando si ha la pancia vuota non ci si pone altro problema che quello della pancia vuota. È quando ci lasciamo alle spalle lo sfruttamento e la dura fatica che cominciamo davvero a farci domande sul destino dell’uomo e sulle ragioni della sua esistenza.

George Orwell (da Come mi pare)[2]

Le cariche energetiche mosse dalla motivazione sono enormi ma funzionano in buona parte dei casi con andamenti ad U inversa. Livelli troppo bassi di attivazione non producono energia, livelli intermedi producono la massima energia, e livelli troppo alti producono eccesso di energia al punto che il soggetto non riesce a gestirla, non riesce a dissiparla e tradurla in azione, e questa implode sull’individuo stesso (stato di implosione o fibrillazione).

I drive o driver sono pulsioni verso o pulsioni contro, sentimenti che possono andare dalla rabbia al bisogno spirituale, dalla curiosità sino alla voglia di riscatto. Sono motori psicologici che alimentano le energie mentali combattive, agonistiche, ed energie ancestrali che tutti abbiamo dentro.

Queste energie per troppe persone sono drammaticamente coperte da una coltre di apatia, di depressione, di rinuncia. Sollevare questa coltre e lasciarle scorrere è urgente.

La prossima volta che teniamo una lezione, chiediamo ai presenti chi ha veramente FAME di cambiare e di diventare qualcuno o qualcosa, fame di crescere, chi accetta la sfida di allenarsi seriamente, e chi lo fa solo per moda o perché “lo fanno gli altri”.

Chiediamo a tutti chi vuole diventare un vero guerriero della vita e chi vuole essere un mediocre nella vita, e diciamoglielo chiaramente: la differenza tra i due inizia qui, in palestra. Si vede dall’ora in cui arrivi, si vede dall’impegno che ci metti negli allenamenti. Si vede dal fatto che vieni contro ogni difficoltà, o vieni solo se coccolato e portato dall’autista. Si vede da quanto sei disposto a sacrificarti per qualcosa.

Poi guardiamo tutti negli occhi. Troveremo risposte.

Dott. Daniele Trevisani

Note sull’autore:

dott. Daniele Trevisani (www.danieletrevisani.com), Fulbright Scholar, consulente in formazione aziendale e coaching (www.studiotrevisani.it) insignito dal Governo USA del premio Fulbright per gli studi sulla Comunicazione nel 1990, è Master of Arts in Mass Communication alla University of Florida e tra i principali esperti mondiali in Sviluppo del Potenziale Umano.

In campo marziale e sportivo, è preparatore certificato Federazione Italiana Fitness, praticante di oltre 10 diverse discipline, Maestro di Kickboxing, Sensei 8° Dan Sistema DaoShi® Bushido www.daoshi.it formatore di atleti e istruttori di Muay Thai, MMA, Kickboxing, Karate  (Kumite), Taekwondo, Full Contact, Sanda, K1, Autodifesa. E’ stato agonista negli USA nei trofei di Karate Open Interstile e campione universitario USA alla University of Florida.

Formatore e ricercatore in Psicologia e Potenziale Umano, è consulente NATO e dell’Esercito Italiano. Laureato in Dams-Comunicazione, è inoltre specializzato in Psicometria all’Università di Padova.

Ha realizzato docenze in oltre 10 Università Italiane ed estere, ed è il tra i principali formatori italiani nella formazione risorse umane, formazione formatori, coaching, formazione di manager, di istruttori e trainer.


[1] Maslow, A. (1954), Motivation and Personality, trad. (1973) Motivazione e personalità, Roma, Armando.

Maslow, A. (1943), A Theory of human motivation, Psychological Review, 50, pp. 370-398.

[2] Fonte: http://it.wikiquote.org/wiki/George_Orwell.

Prohibido Olvidar

Il senso di quello che facciamo: serve davvero sempre “motivare” gli altri?

Desidero proporre in questo spazio aperto un materiale estremamente raro, il diario personale di giovanissimi volontari Italiani (studentesse universitarie ventenni) in una associazione di volontariato con la quale collaboro, attiva soprattutto verso i bambini di strada. Il senso di questa lettura serve per:

  • per i manager: riposizionarsi, rendersi conto di quanto possa valere la motivazione al “fare”, la dove niente e nessuno paga il tuo tempo, se non la tua coscienza stessa. Questo deve far riflettere molti manager e ognuno di noi rispetto al proprio bisogno di “essere motivati da fuori, sempre e continuamente” opposto ad una capacità di “motivarsi da dentro”, andare avanti a testa bassa là dove sappiamo che un progetto è giusto, senza paura di andare controcorrente.

Credo che se adottassimo il sistema esposto nell’articolo: ne trarremo insegnamenti molto forti su come poter dirigere bene un’azienda. Sui valori qui esposti tornerò perché credo si possa apprendere più da questo decalogo, scritto da poveri e per poveri, che da baroni e professori di Harvard:

C COMPROMISO;
R RESPETTO
E SFUERZO
A AMOR
R RESPONSABILIDAD
T TRABAJO EN EQUIPE
E ESPERANZE E SOLIDARIDAD;

  • non dimenticare (Prohibido Olvidar): non dimenticare mai che proveniamo storicamente da un medioevo aziendale fatto di schiavitù e ignoranza, di sfruttamento sul lavoro e di chi acquista, di consumatori ignari e privi di potere e cultura, non dimenticare che le aziende senza coscienza sono un danno per tutti e non dimenticare il bisogno di essere diversi.
  • Non dimenticare mai che miseria sofferenza e povertà dilagano ancora in larga parte del pianeta, e un consumatore attivo è tale (Consum-Attore) anche quando prende coscienza di cosa compra, dove lo compra, da dove viene, chi sta finanziando, che valori sta finanziando.
  • Non dimenticare mai che il senso di lavorare nella cooperazione o in una qualsiasi “club di senso” il vero e unico collante deve essere connesso a questo valore di fondo reale. In caso contrario, diventiamo tutti delle Commodities.

Un ringraziamento inoltre ad Antonio Greci e Mirian Mansilla per il diario fornito, e alle ragazze volontarie per il valore umano e il coraggio di essere a contatto con il mondo vero, che i media tradizionali nascondono dietro a reality e anestetici culturali.

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02-03-2011

Diario argentino 2011 di tre studentesse volontarie di “Mateando” [I, II e III puntata]

di Eleonora, Vincenza e Arianna *

* – Diario dell’esperienza di studio e volontariato di tre studentesse dell’Università di Ferrara – Eleonora Trevisan, Arianna Sermonesi, Vincenza Cicciopastore – a Escobar (Argentina) per l’associazione ferrarese Mateando (http://www.mateandoargentina.com/).

[Argentina – 14 marzo 2011 – III puntata]

IL GUSTO DI SAPER ASCOLTARE “L’ALTRO” – Nel tardo pomeriggio siamo stati a visitare a Garin una struttura dove il volontariato riesce a coprire i bisogni di circa 100 famiglie. Qui il volontariato è profondamente vissuto e sentito, abbiamo conosciuto il presidente di questo centro sociale (il signor Umberto), uomo dotato di grande profezia nel riscatto sociale e nella speranza di un miglioramento futuro nelle condizioni di vita di questa gente. L’associazione chiamata “luz esperanza pureza” è una struttura dove esistono diversi valori che se applicati, potrebbero rendere la quotidianità più serena e meno frustrante. Contrariamente a quella che troviamo in Italia.
Questi valori si riassumono in:
C COMPROMISO;
R RESPETTO
E SFUERZO
A AMOR
R RESPONSABILIDAD
T TRABAJO EN EQUIPE
E ESPERANZE E SOLIDARIDAD;
Come si nota sono tutti valori che nella vita di tutti i giorni molto spesso vengono ignorati oppure non considerati.
Cosa si può trovare di migliore se non educare il prossimo ad essere rispettoso con un suo simile, donarsi e concedersi in tutto e per tutto attraverso l’amore. Sforzarsi di comprendere l’altro in un’ottica diversa dalla propria, oppure essere fiduciosi e solidali con chi ti chiede un aiuto e una mano.
Oggi giorno la società è priva proprio di questo ultimo elemento, la solidarietà è qualcosa di inutile e superfluo, è più comodo pensare a se stessi e a come evitare che l’altro ci calpesti.
Quanto sarebbe più facile e semplice se ognuno di noi assumesse coscienza e responsabilità. Concentrarsi sul fatto che se vogliamo cambiare il mondo o meglio, se intendiamo migliorarlo, sta a noi decidere di farlo.
Per quanto mi riguarda, e per quello che continuo a comprendere giorno dopo giorno da questa fantastica esperienza, che “Mateando” mi sta facendo vivere ,è sapersi mettere sempre in discussione e non dare mai niente per scontato.
Lo vedo in continuazione anche quando esco dalla nostra struttura, la gente con poco cerca di alleviare le difficoltà di chi non ha il necessario per sfamarsi …
Dal povero non possiamo che imparare, sono persone che cercano di IMPROVVISARE e dare vita in qualche modo ad un sistema che non li faccia sentire inutili.
Ad esempio c’è una famiglia nel nostro quartiere che un giorno a settimana distribuisce latte gratis a tutte quelle mamme e famiglie che non hanno nulla per nutrire i propri piccoli.
Vedere la fila di queste povere donne mi fa veramente male, sorge nella mia mente un riferimento spontaneo all’Italia, dove per fare del volontariato è necessario passare attraverso rigide tappe burocratiche, senza comunque ottenere ciò di cui necessita il bisognoso.
Qui c’è tanto da imparare e da capire, la differenza tra il nostro paese estremamente globalizzato e questo, in cui l’unica cosa che conta ( e a mio parere è l’unica a essere valida) è proprio il provare ad “APPRENDERE da chi non ha nulla tra le mani”.
Mettersi in gioco ed essere sempre creativi nella vita è ciò che ci serve, non essere convinti che solo i libri possono insegnarci qualcosa di utile, quelli servono solo ad approfondire la nostra conoscenza e il nostro modo di rapportarci con l’altro.
Penso che il “CUORE” di ognuno sia l’unica strada che riesce a portarci avanti nel nostro cammino di solidarietà, e in particolar modo il “SAPER ASCOLTARE” chi ci sta vicino. Posso confessarvi che è una qualità che non molti hanno, anzi molto spesso si pensa di voler fare del bene, provocando solo danni. La mancanza di sensibilità e il non essere abbastanza empatici con l’altro è ciò che toglie il gusto all’apprendere grazie alla relazione con l’altro. (Eleonora Trevisan, Vincenza Cicciopastore)

PROHIBIDO OLVIDAR – Durante questa settimana abbiamo visitato il Centro dei Veterani della Guerra delle Malvinas. Una struttura questa che accoglie i sopravvissuti del conflitto e fornisce loro uno stabile nel quale riunirsi. Eravamo attese dalla signora Cristina, consigliere comunale ed organizzatrice dell’incontro con due veterani. Inizialmente eravamo un po’ timide perché non sapevamo come comportarci né cosa chiedere, la guerra d’altronde è sempre un argomento delicato. Sergio Munos (che prestò servizio come Soldado Conscripto en el Regimiento de In fanteria Mecanizado N° 3 de la Tablada, combattente nel Porto Argentino) e Daniel Pereira (Soldato conscripto en el grupo de Artilleria de Defensa Aerea 601 (GADA 601) del Esercito Argentino, combattente nel Porto Argentino, Ganso verde e fatto prigioniero in San Carlos), non si sono mostrati imbarazzati ed hanno iniziato a raccontare il loro passato militare, entrambi arruolati all’età di 18 anni, nel 1982.
La guerra scoppiò a causa dell’egoismo inglese che spinse il proprio esercito alla conquista di un territorio naturalmente ricco.
Successivamente si è aggiunto alla conversazione anche un altro veterano, Juan Carlos Monti, un uomo basso e muscoloso, più anziano degli altri, di origine siciliana. Monti svolse nella guerra il ruolo di Cabo Segundo Maquinista en el Destructor A.R.A. “Bouchard”.
Questa guerra, secondo le parole di Monti, fu uno degli insuccessi della dittatura militare e il suo fallimento non fece altro che contribuire a screditarla. In tutte le province argentine esistono centri come questo e tutti hanno la medesima funzione, mantenere viva la storia e la memoria di una guerra che è costata la vita a migliaia di innocenti. Una cosa che mi ha particolarmente colpito sono le sedie presenti in questa struttura, con impresse le immagini delle isole Malvinas accompagnate dalla scritta “PROHIBIDO OLVIDAR”.
Il signor Monti, ha voluto sottolineare il fatto che neppure una volta terminata la guerra, tantomeno oggi sentono riconosciuto il loro valore dal governo statale.
Il centro dei veterani di Escobar, per esempio, è stato costruito senza alcun supporto statale, grazie soprattutto a fondi popolari. Su un milione di pesos circa lo stato ha donato per la sua costruzione solo 6000 pesos! E’ normale che queste persone, obbligate a prendere parte ad atrocità fin da giovanissime (dai 18 anni) avvertano la necessità che venga riconosciuto il loro valore.
Lo Stato glielo deve, perché si prese la loro gioventù e nella maggior parte dei casi, la loro vita.
Ma lo Stato è anche lo stesso a non voler ricordare (…).
Juan Carlos ci ha anche parlato delle conseguenze che questa guerra (come tutte le guerre) ha portato: tantissimi ex soldati si sono suicidati per il trauma posteriore e moltissimi dei veterani soffrono di problemi psichici. Anche per questo motivo il centro mette a disposizione uno psicologo. Mi è piaciuto molto sentire parlare queste persone, come tutte quelle che ho incontrato fino ad ora, sono state veramente accoglienti e sinceramente contente della nostra presenza, tanto da invitarci il giorno seguente a prendere parte a un pranzo fatto apposta per noi nella loro struttura, a base di “asado”, carne buonissima alla griglia tipica argentina.
Come ricordo del loro passato e come gesto di orgoglio, di amicizia e di accettazione, hanno donato a Mirian una delle loro sedie con scritto “Prohibido olvidar”. Questo è stato un gesto di ringraziamento per quello che Mateando fa sul loro territorio.
Concludo con questa frase di Penalba Julio Cesar: “Malvinas: El orgullo de haber formado parte de la Historia de quienes defendieron las Islas y un vacio en el alma, porque una parte mia quedò para sempre junto a los que no volvieron”. (Arianna Sermonesi)

Strategie associative e alleanze strategiche tra marchi: il co-branding

Insieme verso il successo: il co-branding “formato famiglia”

articolo a cura di: Manuela Fragale. Post-fazione di Daniele Trevisani

Così come gli individui, le marche possono essere coinvolte in una relazione che si sviluppa seguendo gli stadi della ricerca del giusto partner e culmina nel matrimonio sotto forma di co-branding. Questo saggio mira a investigare le conseguenze che scaturiscono dall’unione e il loro impatto sui consumatori in termini di effetti sull’immagine di marca.

L’alleanza strategica come vantaggio competitivo

L’ingresso di nuovi e più agguerriti competitori sul mercato globale obbliga l’impresa a progettare vantaggi competitivi, ricorrendo ad alleanze efficaci che svolgano il duplice ruolo di obiettivo strategico da conseguire e di strumento plurifunzionale capace di consentire all’impresa di affrontare con successo l’ipercompetizione. L’alleanza strategica deve essere considerata non quale fenomeno isolato ed eccezionale ma quale componente della propria strategia di sviluppo e della propria progettualità, che consente di realizzare con il partner ciò che da soli non si riesce a realizzare, cioè quale vero e proprio vantaggio competitivo. Più esattamente, si utilizza il termine brand alliances per indicare le associazioni o le combinazioni di due o più brands individuali, prodotti e/o altri assets caratteristici, che possono essere rappresentati fisicamente (prodotto di due o più marche) o simbolicamente (advertisement) dall’associazione di brand names, logos e altri assets. Alcune alleanze presentano una relazione verticale tra acquirenti e venditori; altre presentano una relazione orizzontale tra aziende che propongono al mercato prodotti simili o uguali. Le collaborazioni possono manifestarsi sottoforma di prodotto bundled, combinazioni di prodotto, prodotto componente, brand extensions composte, promozioni vendite unificate. La core idea di molte alleanze è, infatti, l’idea di Adam Smith circa la divisione del lavoro e la specializzazione: spesso ciascun partner si specializza in ciò che gli riesce meglio, rendendo l’alleanza più competitiva di quanto i  partners  potessero diventarlo singolarmente. Da quanto detto finora si evince che le motivazioni che stanno alla base delle alleanze strategiche sono riassumibili in: tecnologia, mercato, concorrenza. Infatti, poiché l’innovazione tecnologica richiede specializzazioni, interventi e sinergie, le aziende devono necessariamente allearsi con partners capaci di assicurare scatti differenziali tecnologici, economie di scala, nuovi sbocchi. Ma la conoscenza e la penetrazione di nuovi mercati richiede capacità e risorse finanziarie non indifferenti che inducono l’impresa ad allearsi. Infine, la presenza di concorrenti agguerriti dà luogo a una duplice scelta per l’impresa: restare da sola e prepararsi a soccombere oppure allearsi ad altre imprese, prendendo in considerazione anche l’eventualità di scegliere come partner l’azienda concorrente. Per ottenere il miglior risultato possibile in un determinato ambito, la partnership deve essere inserita nell’ottica di una pianificazione strategica. In tal senso, la realizzazione della alleanza “giusta” si snoda lungo le seguenti fasi: processo di ricerca della giusta alleanza; ricerca di mercato, ricerca di marketing, ricerca del partner; valutazione dei dati; individuazione della possibile alleanza; negoziazione; attuazione dell’alleanza. I primi due passi sono fondamentali per conoscere approfonditamente il mercato di riferimento e valutare i fattori (politici, fisico-geografici, demografici, economici, socio-sindacali, commerciali, industriali, legislativi) suscettibili di condizionare la costituenda alleanza  oltre che individuare i contenuti della stessa alleanza (investimento, settore merceologico, mercato relativo, costi, missione, vantaggi competitivi). L’individuazione del partner giusto è indispensabile per porre in atto una alleanza capace di contrastare i concorrenti; perciò, l’azienda valuta approfonditamente ogni candidato (potenziale partner) in base a una checklist comprensiva delle caratteristiche indispensabili. Poiché la finalità principale delle alleanze è l’integrazione sinergica delle esperienze, delle tecnologie e degli interessi, la ricerca del partner deve sempre tenere presente il tipo di impresa, il settore merceologico in cui essa opera, la sua reputazione, le sue risorse finanziarie e umane, il suo grado di tecnologia e di competenza.

Vantaggi e rischi delle tipologie di co-branding

Le azioni di co-branding si articolano in due tipologie fondamentali: il make-in (anche detto ingredient co-branding nel settore food) e  il  joint advertising (imperniato sulla complementarità tecnica o sulla complementarità simbolica). Nel make-in, la marca primaria effettua una estensione diretta, avvalendosi però della competenza, del progresso tecnologico, delle caratteristiche materiali e immateriali della marca secondaria. Il prodotto che scaturisce da tale forma di alleanza può presentarsi al mercato con un nome ad hoc oppure sotto il nome della marca primaria (con la marca secondaria inserita nella dicitura “…. inside”). La strategia di make-in tiene conto della decomponibilità, in elementi funzionali, del design di molti prodotti; prevede, cioè, il ricorso all’architettura modulare, che – oltre a permettere la creazione di un prodotto assemblato “unico” – consente di espandere la capacità dei prodotti in più di una maniera: aggiungendo componenti addizionali, prevedendo componenti in grado di sostituire i vecchi componenti, fornendo l’opportunità di modificare il prodotto in seguito all’acquisto, offrendo un prodotto che può essere usato congiuntamente ad un altro prodotto. La modularità presenta, insomma, numerosi vantaggi: incrementa la varietà dei prodotti, riduce il tempo e le risorse richieste per il lancio e per lo sviluppo di nuovi prodotti, accelera l’introduzione di prodotti perfezionati tecnologicamente. Allo scopo di offrire un determinato insieme di attributi ed elevati livelli di performance a costi modici, possono, quindi, essere creati modelli complessi che incorporano componenti assemblati. Poiché il cambiamento in un componente richiede il cambiamento nel design degli altri componenti, l’architettura modulare si rivela difficile, costosa e time-consuming da cambiare. Se il termine make-in suole indicare la realizzazione congiunta di un prodotto afferente al settore no-food, il termine ingredient co-branding è utilizzato prevalentemente per designare le strategie di make-in attuate  nel settore food. L’ingredient co-branding prevede la creazione di un brand name composto per lanciare un nuovo prodotto. Due aziende (dunque, due marche) possono allearsi per entrare in un nuovo product-market, mediante la condivisione di abilità manifatturiera e di marketing. Tale approccio è anche definito composite brand extension (CBE) perché, in realtà, altro non è che una forma di brand extension. Di fatto, l’estensione diretta è posta in essere da una singola azienda per completare la propria offerta e utilizzando esclusivamente i propri skills, le proprie caratteristiche materiali e immateriali; al contrario, la CBE viene affrontata da una azienda che desidera offrire un prodotto qualitativamente migliore, arricchito, capace di attrarre altri segmenti di consumatori. Pur presentando notevoli vantaggi, la strategia di ingredient co-branding presenta qualche problema. Tenendo conto solo del packaging e dell’advertising, la determinazione dei concetti di marca primaria e di marca modificante (o secondaria) non è sempre chiara nelle brand extensions composte; tuttavia, è lecito affermare che la marca primaria (modificante) precede (segue) la preposizione by. Inoltre, la diversa prominenza degli attributi fa sì che, a volte, le due marche entrino in conflitto tra loro. E’ bene sottolineare, comunque, che il brand name composto – oltre a fornire al cliente un valore maggiore – influenza favorevolmente le reazioni al prodotto/estensione perché consente agli attributi prominenti e ai livelli di performance della modificante di essere assimilati nelle caratteristiche della primaria (1).

Per tutta la vita. I brand e il matrimonio

Se è vero, come è vero, che al brand viene riconosciuta “personalità”, deve essere accettata l’appartenenza (simbolica) del brand alla classe degli individui. Dunque, ai brands può essere applicato il concetto di marriage analogy, già adottato con le dovute precauzioni nell’analisi dei ruoli interpretati tra individui e organizzazioni o tra organizzazioni. Il processo di sviluppo della relazione si evolve attraverso cinque fasi generali: consapevolezza, quando le parti si riconoscono come possibili partners; esplorazione, fase di ricerca in cui vengono considerati obbligazioni, benefici, inconvenienti e altre possibilità di scambio; espansione, quando i partners sempre più interdipendenti ottengono ulteriori benefici dalla loro relazione; promessa, quando i partners implicitamente o esplicitamente giurano di continuare la loro relazione; dissoluzione, quando la relazione termina. I cinque stadi possono essere equiparati agli stadi che caratterizzano le relazioni sentimentali degli esseri umani: appuntamento, uscita, frequentazione stabile, matrimonio, divorzio. Non sono mancate, pure, raccomandazioni atte a trasformare la promessa in una relazione durevole: scegliere il partner con cura, strutturare la partnership attentamente, dedicare tempo allo sviluppo della relazione, mantenere aperta la comunicazione, essere fedeli. Inoltre, sono stati suggeriti meccanismi di supporto che includono terapia prematrimoniale, accordi matrimoniali e assistenza matrimoniale (2). La gestione della relazione tra brands, dunque, può essere paragonata al matrimonio cristiano, consistente nell’impegno pubblico e legalmente vincolante tra due adulti consenzienti e destinato a durare per tutta la vita: si tratta, dunque, di un impegno di natura contrattuale, sottoscritto volontariamente, esclusivo e di lungo termine. Le motivazioni primarie per le relazioni di marketing non sono il mutuo soccorso e l’amicizia  (validi per le coppie umane) ma il mutuo vantaggio competitivo e il successo di lungo periodo. Le marche accomunate da complementarità tecnica o simbolica possono decidere di intraprendere un serio cammino insieme mediante le azioni di co-branding e, mediante le tipologie di make-in o ingredient co-branding, di procreare una nuova creatura tutta loro: un brand-figlio, sintesi dei valori e dell’importanza dei brands-genitori. Ecco, dunque, che la marriage analogy viene posta in un contesto di diade maschile femminile che rimanda alla scelta del second brand-moglie paragonabile a quanto accadeva alle coppie dei ceti elevati nei secoli scorsi. “Il legame che si crea con il matrimonio non è un fatto personale: qui si tratta del fatto che la donna (o l’uomo) di nobili natali si sposa come l’uomo di nobili natali combatte, non per ragioni personali, ma politiche e familiari. La personalità della sposa va valutata come la sua: secondo il valore che assume per la stirpe. La bellezza, l’arguzia e l’attività di lei assumono significato perché è lei che dovrà (…) tenere alto il nome del casato. Posto che lei sia utile alla stirpe dei Rohan  e le dia lustro (il second brand conferisce maggiore valore al first brand, N.d.A.), può anche non curarsi del metro usato dal resto del mondo (perceived fit, N.d.A.). Il rapporto tra coniugi non era affatto personale e, a rigore, l’uno non avrebbe potuto rendere felice l’altro o deluderlo direttamente o su un piano personale, ma essi dovevano essere sommamente importanti l’uno per l’altro grazie al rapporto che ciascuno aveva con il comune compito della loro vita e al ruolo che svolgevano nel suo adempimento” (3). Il co-branding, però, può rivelarsi una scelta di successo solo per una delle marche coinvolte se non sono rispettate le tre regole del buon matrimonio: i coniugi devono ottenere gli stessi vantaggi in termini di valore, i coniugi devono  condividere il valore, la relazione e il valore della relazione devono essere comprensibili sia per i partners coinvolti sia per i consumatori (4). Non solo. Una alleanza strategica deve necessariamente dimostrare la condivisione di valori fondamentali su tre livelli: il livello di valore funzionale, cioè cosa la brand partnership offre al consumatore; espressivo, cioè cosa la brand partnership dice di sé al consumatore; centrale, cioè cosa condividono la brand partnership e il consumatore (5). Se ciò non accade, il co-branding fallisce.

Conclusioni

In un contesto di co-branding, l’influenza positiva associata alla marca secondaria può essere trasferita o confusa con l’influenza associata alla marca primaria, nonché trasferita all’intero co-branding. La presenza della marca secondaria rafforza le dimensioni valutative già altamente salienti e fa sì che i consumatori siano propensi a confermare le loro credenze circa gli attributi importanti del prodotto. Ovviamente, gli effetti del co-branding attengono anche alla natura delle associazioni di marca: quando la marca secondaria presenta associazioni di marca favorevoli (sfavorevoli) il co-branding valorizza (deprezza) la valutazione di tutte le dimensioni salienti della marca primaria. La marca secondaria caratterizzata da forti associazioni di marca agisce sulle previsioni e sui giudizi del consumatore e conferisce credibilità alla marca primaria; di conseguenza, i consumatori deducono che la marca associata ha gli stessi livelli di qualità e credibilità della marca da loro conosciuta. Poiché le credenze associate alla marca secondaria influenzano la valutazione della marca primaria, è auspicabile che la marca secondaria sia più forte della primaria, per quanto concerne la dimensione valutativa. Al contrario, se i consumatori non percepiscono la marca secondaria come atta a migliorare la performance della marca primaria sulla dimensione valutativa, il co-branding provoca reattanza psicologica e nuoce alla valutazione della marca primaria. Sia nel make-in, che è realizzazione congiunta di un unico bene, sia nelle campagne pubblicitarie (intese in senso di mero spot) condivise, il processo di ricerca della “giusta alleanza” sfocia:

  • nella scelta di un partner altamente complementare, quando l’azienda ricerca l’accettazione rapida dei propri prodotti, tentando di stabilire un first-mover advantage e di massimizzare la brand awareness;
  • nella scelta di un partner dissimile, quando l’azienda intende rivolgersi a nuovi segmenti di mercato e massimizzare l’accessibilità delle credenze di marca.

La scelta di un partner (apparentemente) dissimile è avvalorata dalle azioni di joint advertising basate sulla complementarità simbolica e dall’attuazione di strategie di brand extension composte che sfociano nella creazione di un bene “unico”, che va sotto il nome della marca primaria ma che racchiude le più rilevanti associazioni di marca collegate alla marca secondaria.

E’ innegabile che il co-branding influenzi la gestione della relazione tra il concetto di marca e la sua immagine. L’attuazione di campagne pubblicitarie efficienti è resa possibile dal ricorso ad alleanze laterali (accordi di co-branding) che consentono all’azienda di sfruttare tanto le competenze interne quanto le competenze del partner, di ampliare il proprio target (rivolgendosi al target della marca partner), di affiancare nuovi acquirenti alla propria quota di clienti fedeli.  Si crea quasi un effetto a catena, che segna la storia di ogni marca coinvolta:

  • ogni marca, considerata singolarmente, si è imposta all’attenzione del pubblico con una o più campagne pubblicitarie volte a presentare determinate caratteristiche di marca;
  • mediante le campagne pubblicitarie condivise, effetto delle alleanze, ciascuna marca può far leva sia sulla propria brand image sia sulla brand image del partner (entrambe sviluppatesi nel corso delle campagne effettuate singolarmente), con conseguenti possibili rafforzamenti delle brand images;
  • mediante successive campagne pubblicitarie condivise, entrambe le marche aggiungono un quid, in termini di intangibile assets, alla loro essenza.

Post-fazione, a cura di Daniele Trevisani

Ogni brand porta con sè interi mondi semiotici, o “semiosfere” – aree di significato culturale parzialmente condivise – in grado di “contaminare” o invece “addittivare” di significati un marchio.

Come ho potuto evidenziare in “Psicologia di Marketing e Comunicazione“, mentre per gli indici le associazioni sono comprensibili ed immediate (es: Rolls Royce indice di denaro, muscoli indice di forza, occhiaie indice di stanchezza), le interpretazioni dei simboli, essendo arbitrarie, devono essere concordate tra emittente e ricevente, costruendo un codice di comunicazione (sistema di regole che associa forme a significati), o ricorrendo ai codici di comunicazione già esistenti nella società.

Ciascuna società, tuttavia, utilizza codici che sono frutto della sua storia e del suo passato, ed è quindi sbagliato pretendere o dare per scontato che i simboli funzionanti in una cultura funzionino anche in un’altra cultura. Le differenze culturali agiscono fortemente sulla comunicazione internazionale d’impresa, anche se le contaminazioni culturali tendono, nel corso del tempo, ad omogeneizzare alcuni codici di comunicazione internazionale.

Simboli aziendali ed anticipazione delle reazioni di mercato

Ciascun simbolo si presta a diversi livelli di lettura. È necessario quindi considerare la molteplicità di interpretazioni che, in chiave simbolica, qualsiasi elemento è in grado di assumere, e anticipare le possibilità di errore e devianza interpretativa che possono avvenire.

Ricerche svolte dall’autore[1] hanno evidenziato che l’utilizzo di un logo aziendale (il simbolo di una mano aperta) può avere riflessi simbolicamente neutri per alcune culture, per altre culture può assumere significati negativi (nello specifico, una connotazione di “stop”), in altre ancora può produrre significati ancora più negativi. Ad esempio in Grecia il simbolo della mano aperta è un modo non verbale di offendere, di dire “sei stupido”, e un packaging che incorpora tale simbolo troverà ostacoli culturali molto forti in quel paese.

In generale, in ogni nazione o area culturale esistono simbologie negative che le aziende devono attentamente evitare di inserire all’interno della propria comunicazione. Una nota casa di pneumatici ha dovuto ritirare dai mercati mondiali un suo prodotto il cui battistrada riproduceva sul terreno non asfaltato un disegno simile a versetti coranici. Questo è risultato molto offensivo per tutti i mercati in cui la religione islamica è dominante, e l’azienda si è vista costretta a ritirare il prodotto, fornendo inoltre scuse ufficiali.

La semiotica si occupa di analizzare i livelli di lettura dei segni. Possiamo infatti distinguere tra diversi livelli di interpretazione del segno o messaggio:

  • Sintattica: analisi della struttura del segno o messaggio;
  • Semantica: analisi dei significati;
  • Pragmatica: analisi di impatto, analisi degli effetti pratici del segno, cambiamento indotto dal segno sul ricevente, modificazioni di atteggiamento.

Troppe aziende sono oggi attente alla dimensione esclusivamente pragmatica, senza chiedersi quali “significati” stiano costruendo con i suoi comportamenti, e quali messaggi sociali stiano lanciando, un’eredità che va ben oltre le vendite del trimestre ma incide profondamente sul valore futuro del marchio e sul valore sociale dell’impresa.

 


[1] Daniele Trevisani (1991). Corporate Symbols and Corporate Image. University of Florida.

 

NOTE

(1) Fragale M., A.A. 1998/99, Le politiche di co-branding. Analisi di casi aziendali, Tesi di laurea, Università della Calabria

(2) Tynan C., 1997, A review of the marriage analogy in relationship marketing, Journal of Marketing Management, vol.130, n.7, Oct., 695/703

(3) Blixen K., 1987, Il matrimonio moderno, Edizione CDE su licenza della Adelphi Edizioni, Milano, 67/68

(4) Lindstrom M., 2002, Brand + Brand = Success? Part 1, www.martinlindstrom.com

(5) Lindstrom M., 2002, Brand + Brand = Success, Part 2: Brand Marriage Failure, www.martinlindstrom.com

 

Note sugli autori

  • Manuela Fragale è  Giornalista Pubblicista e Dottore Commercialista. Ha conseguito la Laurea in Scienze Economiche e Sociali, a indirizzo economico, presso la Facoltà di Economia dell’Università degli Studi della Calabria, Dipartimento di Organizzazione Aziendale e Amministrazione Pubblica, discutendo la tesi sperimentale in Marketing “Le politiche di co-branding. Analisi di casi aziendali”. Si è specializzata con il Corso di Alta Formazione post lauream “Il giornalismo economico. Comunicare e informare al servizio di giornali, imprese e istituzioni” e con il Corso post lauream “Nuovi media per il giornalismo e la comunicazione pubblica”. Dal 2001 è collaboratrice di diverse testate giornalistiche italiane ed estere, docente di giornalismo economico, responsabile di uffici stampa.
  • Daniele Trevisani, Direttore Studio Trevisani Communication Research, è autore del best seller italiano “Psicologia di Marketing e Comunicazione”,  coach aziendale e consulente e tra i principali formatori in Italia nell’area della psicologia di marketing e fenomeni di acquisto e consumo.