Bibliografia selezionata di Marketing Percettivo – Libri di Psicologia del Marketing

Marketing Percettivo

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Bibliografia di approfondimento, selezione con schede su IBS, curata da Daniele Trevisani (www.studiotrevisani.it)

Che cos’è l’impression management
Mazzoleni Carla, Facioli Francesca, 2006, Carocci
€ 8,00   (Prezzo di copertina € 10,00)
Brand naming. Il nome all’interno del sistema-marca
Cellotto Alberto, 2005, CLEUP
€ 13,00
Psicologia di marketing e comunicazione. Pulsioni d’acquisto, leve persuasive, nuove strategie di comunicazione e management
Trevisani Daniele, 2004, Franco Angeli
€ 22,00

Psicologia per il marketing
Williams Keith C., 2004, Il Mulino
€ 22,00
Il marketing dei sensi. Cinque sensi per vendere e comprare
Miani Alessandro, Tonielli Marialuisa, Virardi Gianfranco, 2008, Lupetti
€ 15,00
Marketing emozionale. Con CD-ROM
Gallucci Francesco, 2007, EGEA
€ 29,00
Shopper marketing. Creare valore nei luoghi di acquisto
Cardinali M. Grazia, 2009, EGEA
€ 20,00
Marketing e comunicazione non convenzionale. Guerrilla, virale, polisensoriale, emozionale
Ferrari Tino, 2009, CLUEB
€ 18,00
Il marketing dei luoghi e delle emozioni
Gallucci Francesco, Poponessi Paolo, 2008, EGEA
€ 28,00
Store management. Il punto vendita come piattaforma relazionale
2008, Franco Angeli
€ 38,00

Atmosfera e visual merchandising: ambienti, relazioni ed esperienze. Il punto vendita come luogo e strumento di comunicazione
Zaghi Karin, 2008, Franco Angeli
€ 36,50
Il progetto dell’identità di marca nel punto vendita
Gerosa Giulia, 2008, Franco Angeli
€ 24,00

La guida del Sole 24 Ore allo store management. Come organizzare e gestire il punto vendita di una grande catena
2008, Il Sole 24 Ore Libri
€ 23,80

Il punto vendita
2006, Buffetti
€ 18,00

Innovazione e Brand Experience. Sensitive Space System: comunicazione multisensoriale nel punto vendita
2007, Lupetti
€ 15,00
Shopping mania. La scienza dello shopping
Underhill Paco, 2006, Sperling & Kupfer
Metafore di marketing. Viaggio nella mente dei consumatori
Zaltman Gerald, Zaltman Lindsay, 2008, Etas
€ 21,50
Come pensano i consumatori. Quello che il cliente non dice e la concorrenza non sa
Zaltman Gerald, 2003, Etas
€ 24,00

Un classico da cui nascono quasi tutti gli studi attuali sulla psicologia del marketing

I persuasori occulti
Packard Vance, 2005, Einaudi
€ 11,50

Testi di approfondimento su marketing e neuroscienze

Neuromarketing. Attività cerebrale e comportamenti d’acquisto
Lindstrom Martin, 2009, Apogeo
€ 16,00

La mente del consumatore. Introduzione al neuromarketing
Graziano Mario, 2008, Lussografica
€ 15,00

Neuroeconomia, neuromarketing e processi decisionali
Babiloni Fabio; Meroni Vittorio; Soranzo Ramon, 2007, Springer Verlag
€ 25,95

Neuromarketing: il nervo della vendita
Renvoisé Patrick; Morin Christophe, 2006, Le Lettere
€ 28,00

Libri di marketing

Marketing Percettivo

Riepilogo Bibliografia

Formatore: Dr. Daniele Trevisani (www.studiotrevisani.it) per Scuola Nazionale Coop

Sede: c/o Coop Adriatica, 23-24 febbraio 2010

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Le principali pubblicazioni di Daniele Trevisani

Competitività aziendale, personale, organizzativa

Strumenti di sviluppo e creazione del valore.

Franco Angeli editore, Milano, 2000. (224 pag.)

Psicologia di Marketing e Comunicazione

Pulsioni d’acquisto, leve persuasive, nuove strategie di comunicazione e management.

Franco Angeli, Milano, 2001. (256 pag.) Best Seller in Psicologia di marketing

Il Potenziale Umano

Metodi e tecniche di coaching e training per lo sviluppo delle performance

Franco Angeli editore, Milano, 2009. (240 pag.)

Scheda su IBS Scheda su IBS Scheda su IBS

Comportamento d’Acquisto e Comunicazione Strategica

Dall’analisi del Consumer Behavior alla progettazione comunicativa.

Franco Angeli editore, Milano, 2003. (288 pag.)

Negoziazione Interculturale

Comunicazione oltre le barriere culturali. Dalle relazioni interne sino alle trattative internazionali.

Franco Angeli editore, Milano, 2005. (172 pag.)

Regie di Cambiamento

Approcci integrati alle risorse umane, allo sviluppo personale e organizzativo, e al coaching.

Franco Angeli editore, Milano, 2007. (240 pag.)

Scheda su IBS Scheda su IBS Scheda su IBS

Altri testi rilevanti per il tema trattato

2009
Neuromarketing. Attività cerebrale e comportamenti d’acquisto
Lindstrom Martin, 2009, Apogeo
€ 16,00

2008
La mente del consumatore. Introduzione al neuromarketing
Graziano Mario, 2008, Lussografica
€ 15,00

2007
Neuroeconomia, neuromarketing e processi decisionali
Babiloni Fabio; Meroni Vittorio; Soranzo Ramon, 2007, Springer Verlag
€ 25,95

2006
Neuromarketing: il nervo della vendita
Renvoisé Patrick; Morin Christophe, 2006, Le Lettere
€ 28,00

Aiuto i miei sani pregiudizi non reggono: a proposito di vivere il brand

Autore Stefano Ferrata, Scuola Coop

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Immaginatevi il classico WASP  americano,  bianco, economicamente agiato, progressista, politically correct e molto attento all’alimentazione.

 Conoscendo un po’ il sistema distributivo statunitense il classico cliente WHOLEFOODS, la catena stracult per quel micro?medio? segmento di clienti che fa del cibo organic l’asse portante anche del proprio stile di vita.

Bene il nostro amico ha subito un autentico shock, ma siccome è intellettualmente corretto non si è leccato le ferite in privato ma ha pubblicato un’interessantissimo video-articolo sulla rivista  The Atlantic http://www.theatlantic.com/doc/201003/walmart-local-produce .

Cosa succede in breve (ovviamente vi rimando alla lettura dell’articolo e alla visione del video per una più approfondita disamina): Wal Mart a fari quasi spenti sta offrendo nei suoi reparti ferschi, per ora soprattutto nella frutta e verdura, una grande quantità di prodotti sostenibili, sia “Organic” (simili ai nostri biologici) sia da produzioni locali (vicini alla idea di KM ZERO), e lo fa riuscendo ad offrire la classica convenienza walmartiana.

Lo segnalo non per innalzare peana a quella che rimane un’azienda con mille contraddizioni ma perchè  sempre più frequentemente certezze monolitiche vengono rimesse in  profonda discussione; come dice una frase riportata nell’articolo   di una  funzionaria dell’ufficio di difesa ambientale: “è sempre più difficile odiare Wal Mart”.

Mi sembra un buon esempio di tentativo di “riscaldamento” del Brand.  Lo slogan adottato da Wal Mart : KNOW YOUR FARMER, KNOW YOUR FOOD  credo che renda esplicitamente l’idea e fanno sorridere le facce attonite dei 16 invitati alla cena organizzata dall’autore e basata su quattro portate  “cieche” con ingredienti Wal Mart e Wholefoods: hanno votato contro le loro intenzioni ma ..al palato non si comanda!!!

Vivere Il Brand – Alcuni concetti fondamentali

Vivere il brand: proposte e idee per una cultura amplificata di marketing e vendita

Articolo di Daniele Trevisani, anticipazione editoriale dalla rivista Communication Research n. 2/2010, Copyright.

Ogni azienda ha un marchio, persino un soprannome di persona, diventa un marchio.

Come ogni marchio ha un proprio vissuto, propri alti e bassi, e un proprio valore, un “potere evocativo”, o “potenza semantica”, la potenza dei significati che riesce ad avere per una persona, per come egli la vive. Immaginiamo un centro fitness che riesca a diventare così potente, dal punto di vista semantico, da diventare il luogo davanti al quale si parte la sera per andare in discoteca. Il luogo nel quale dare appuntamento ad un cliente importante. Il luogo nel quale ti liberi dallo stress, il luogo nel quale cerchi la tua micro-vacanza quotidiana,  il luogo nel quale sai che potrai permetterti di allentare le barricate che devi porre ogni giorno verso lo stress.

Un problema che osservo da una angolazione privilegiata, quella di consumatore ordinario che fa la spesa e acquisti, che vive lo sport e la famiglia, che vive gli acquisti come ogni persona, e contemporaneamente consulente/formatore che fa ricerca sui processi di acquisto, è quello della dissonanza opposta ad una ricerca di consonanza tra marchio e comportamenti osservabili in alcuni ambiti aziendali.

Ho sempre trovato di estremo interesse la psicologia del marketing quando questa aiuta ad andare incontro ai bisogni delle persone, odiandola altrettanto per la sua capacità, se usata male, di creare bisogni stupidi o dirottare le priorità vere delle persone su valori subdoli e pericolosi. Verso alcuni temi di marketing e la parole connesse a questa sfera aziendale, dobbiamo riconoscere la presenza di una sindrome pericolosa, che in psicologia viene chiamata “intolleranza alle emozioni”. L’intolleranza alle emozioni è il momento nel quale facciamo fatica a prendere atto della comparsa di una certa emozione in noi, e come meccanismo di difesa possiamo diventare aggressivi o evitativi, o negare l’esistenza stessa del fattore che genera questa emozione. Alcune culture d’impresa si illuminano al solo sentire o leggere la parola “marketing”, altre ne rimangono indifferenti, altre la vivono in modo marginale, altre ancora fanno ruotare tutta la strategia attorno a questo tema.  Prendiamo ad esempio due mondi: il mondo del fitness, nel quale si ragiona con il sistema “se qualcuno vuole fare sport la palestra è aperta”, e il mondo cooperativo,  che non è certo immune a questa tendenza oscillatoria che permea ogni vissuto aziendale, per motivi che spiegherò tra poco. Il problema dell’impresa nasce quando il marketing diventa esigenza dovuta ma non un territorio di espressione naturale. In molte aziende, questo deriva da una storia nella quale era il cliente a cercare il fornitore. Oggi è il fornitore a cercare il cliente, e questo genera un disorientamento storico. Lo notiamo anche nel passaggio generazionale nelle PMI, dove i figli spesso trovano come maggiore ostacolo la cultura dei padri. Questo stato può toccare anche il movimento cooperativo.

Siamo lontani dai tempi nei quali un allievo di Karate doveva dormire all’addiaccio davanti alla casa del maestro, nella speranza di essere accettato come suo allievo. Oggi sono più i corsi degli allievi (metaforicamente), così come sono più i centri commerciali e distributivi rispetto ai quartieri di una città.

Questo genera disorientamento. La ragione di questo probabilmente va ricercata nella storia stessa del movimento cooperativo, che parte come aggregazione di acquirenti e non certo come aggregazione di venditori. La ragione di questo, nel mondo sportivo, viene dal fatto che chi nutre tanta passione per lo sport da averlo fatto per una vita, e poi apre una palestra, non riesca a capire come non sia possibile che esistano persone che vanno incentivate a farlo.

Senza negare la storia, dobbiamo chiederci quali erano i valori che hanno dato luogo a questa storia, e trasportarli oggi in un futuro che è già presente. I valori della difesa dei diritti, delle uguaglianze, di un consumo intelligente, della salute, della socialità, i valori sociali, possono e devono essere parte del marketing di ogni azienda. Se il prodotto/servizio è utile, il marketing ne fa da amplificatore.

Il mondo cooperativo ha poi la possibilità di attingere ad un modo diverso di fare marketing che usa gli stessi strumenti, con fini simili, per una causa completamente diversa: non il profitto di un singolo padrone, ma l’accrescimento positivo di una organizzazione che risponde a bisogni sociali. Se confondiamo l’arma (il marketing) con il fine, entriamo nella sindrome di intolleranza alle emozioni e inizieremo a non amare lo strumento e nemmeno il fine che invece esiste e si tocca con mano nelle persone.  Ma qui entriamo nel pianeta variegato delle problematiche connesse al mondo delle vendite e ad una cultura di vendita.  Dobbiamo porci questi problemi ora, subito, prima che sia troppo tardi:

  • Qualità relazionale verso il cliente e socio: che rapporto offre un’impresa ai propri clienti, come vogliamo definire la qualità relazionale, come la definiamo oggi, come dovremmo probabilmente ridefinirla in prospettiva diversa? Bastano le indagini di Customer o dovremmo guardare ad aspettative latenti del socio, che ancora non sono nemmeno emerse?
  • Brand Extension: i confini di estensibilità del marchio: fino a che punto, quali sono i confini sostenibili, quali quelli sperimentati sinora, con che risultati, quali possibili sviluppi futuri
  • Vendita: stato dell’arte e possibili sviluppi. Che opportunità potremmo cogliere? Dove sono le possibilità di sviluppo? In quali direzioni tecnologiche? In quali sul piano relazionale?
  • Microsegmentazione: impostare il lavoro sul mercato uscendo da concezioni generaliste e localizzando micro-segmenti e bisogni molto specifici (che vanno oltre la categoria in se, ed entrano nella sfera della psicologia del bisogno). Quali variabili possiamo usare per la micro-segmentazione? La micro-segmentazione può dinamicizzare il nostro rapporto con il mercato?

Il punto di interesse tecnico focale della vendita è la micro-segmentazione, partendo dal principio che ogni segmento (es: giovani mamme, adulti single, giovani coppie, anziani etc) ha propri set di aspettative e valuta la qualità relazionale e il lavoro svolto dalle imprese offerenti con criteri diversi. La sfida è come essere “bravi” a rispondere ad esigenze variegate anche in un contesto di grande distribuzione, e come farlo soprattutto con una distintività percepibile veramente.

Ad esempio, un gruppo di lavoro nel quale facciamo formazione, esamina ricerche attuali di marketing per ricercare ponti con il mondo delle imprese aderenti, uno dei tanti temi che tratteremo presto è come stiamo rispondendo al segmento che chiede uno “Healthy Lifestyle?” (spunto che nasce da un articolo del Journal of Consumer Research, in un articolo specifico – How Does Drug and Supplement Marketing Affect a Healthy Lifestyle?).

La sensazione che si ha in molti rapporti con le imprese, come clienti e consumatori  di beni e servizi, è quella di un ottimo luogo per acquisti generici ma che i bisogni personali diventino involontariamente marginali, aree, possiamo chiamarle “residuali” nella “sensazione sentita” di sentirisi visitatore, in cui non si percepisce un “trionfo” di attenzione, zone in cui l’illuminazione o I display sembrano dotati di minor potere attrattivo, o le musiche non adeguate o l’assortimento e informazioni appaiono come spente o dotate di poca carica di energia, o le persone arrancano per arrivare a sera.

Dobbiamo quindi chiederci se la cultura del marketing, un marketing percettivo “sano”, “corretto”, che consiste nel far percepire bene al cliente il valore che abbiamo, sia entrata davvero o siamo ancora sulla strada e sul cammino, e quando vorremmo arrivare ad un punto che consideriamo un punto d’arrivo.

In una indagine qualitativa, emerge il caso di un cliente (chiamiamolo Mario), un cliente alla ricerca di un pc portatile, di fascia medio-alta, per cambiare il suo pc portatile principale. Si rivolge ad uno store specializzato, dove desidera poter ricevere un servizio di info-on-demand sulla sua email. Desidera in altre parole davvero ricevere, via mail, un bollettino informative sulle offerte in corso, magari selezionando una fascia di prezzo e di qualità che interessa, ed essere piacevolmente sorpreso nel farsi carico del suo problema di acquisto senza dover periodicamente visitare il punto vendita. Entriamo qui quindi in una richiesta di ribaltamento completo, da cultura di vendita push, a cultura di supporto ad acquisti che esprimono membri di micro-segmenti.

Il micro-segmento degli appassionati di Informatica esiste. Il micro-segmento di neo-mamme in cerca di (non solo) prodotti ma orientamento nel nuovo ruolo esiste. Il micro-segmento degli “energy savers”  coloro i quali cercano soluzioni per il risparmio di energia, esiste. Il micro segmento degli appassionati di nutraceuticals e di integratori sportivi esiste. Il micro-segmento degli intellettuali appassionati di bio esiste. Trovano risposta in noi? Questi ed altri micro-segmenti sono il vero mercato.

Dovremmo quindi forse sfruttare meglio le opportunità tecnologiche, avviare campagne di informazione on demand, coltivare maggiormente I tantissimi micro-segmenti di cui si compongono milioni di soci, evitando di pensarli (non di vederli, ma persino di pensarli) come un aggregato indistinto, e osservandoli come piccolo tribù, spesso nomadi, nelle quali si entra e si esce in certi moment della vita e persino della giornata, clan cui ci si aggrega per qualche ora, mese o anno, con la libertà di uscirne.

Un ulteriore caso specifico spiega altri dettagli della problematica di potenziare la cultura di vendita: parte da una telefonata reale al numero di centralino di una impresa della Grande Distribuzione Organizzata, uno store specialistico. Motivo: ricerca di un cellulare con fotocamera da 8 megapixel (fascia alta, circa 400 euro). La centralinista o addetta telefonica (ruolo non ben percepito dall’intervistato) dice che gli addetti del reparto sono tutti impegnati, e bisogna passare di persona. Il cliente afferma che desiderava solo sapere se quel modello era presente o meno, e che abitava a 40 km dal punto vendita, quindi per fare il viaggio desiderava almeno sapere se il modello che cercava esiste. Dal telefono giunge la risposta che “se anche ci fosse adesso non è detto che poi ci sia quando arriva”, e che “non possiamo tenere fermo un pezzo, se arriva qualcuno viene venduto e quindi se anche ci fosse non è detto che ci sia dopo”. Emerge chiaramente che la mancanza di una cultura di vendita.

Parlo di una cultura di vendita e di marketing sana e rispondente al bisogno, non di una cultura di vendita insana o malsana. Parlo di far risparmiare quei 40 km a qualcuno e ascoltarlo con interesse. Ancora prima che di una competenza di vendita, dobbiamo potenziare la cultura della vendita. La competenza arriva solo dopo che una cultura si è insediata, solo dopo che qualcosa è stato ritenuto importante e meritevole. Il problema non è tanto quello di instaurare una vendita aggressiva (che non è il nostro stile), ma di dare risposta a dei bisogni veri, che si localizzano in micro-segmenti di bisogno specifici. In questo territorio (i bisogni localizzati, i bisogni sottostanti cui dare risposta anche in modo non convenzionale) si situa una delle maggiori sfide dei tempi attuali. Quando troviamo una persona che si interessa a noi il rapporto vive. Vivere il Brand significa per il cliente pensare alla tua azienda, prima di qualsiasi altra alternativa, sentirla come il depositario di un “filo rosso di fiducia” che lega il mio bisogno a qualcuno di cui mi fido, per una ampia categoria di bisogni, e considerare ogni altro concorrente come alternativa di serie B. Dove questo è possibile? Dove meno? Dove lo sarebbe se trovassimo nuove strategie commerciali? A noi la prossima mossa…

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Articolo di Daniele Trevisani, anticipazione editoriale dalla rivista Communication Research n. 2/2010, Copyright.

Vivere il brand – un esempio concreto

Articolo di Daniele Trevisani, anticipazione editoriale dalla rivista Communication Research n. 2/2010, Copyright.

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Vivere il brand significa aiutare: Le relazioni umane al centro del vissuto della Marca.

Dal 2000 e 2001, annio in cui ho pubblicato il volume “Competitività Aziendale” e “Psicologia di Marketing”, quando parlo di Brand, ripeto più o meno le stesse cose, e cioè che il Brand è una questione di relazioni umane e non di pubblicità. Inutile investire in grandi budget se poi il contatto vero con le persone disconferma quanto promesso. Quando le persone si sentono trattate male, quando non sono ascoltate, quando chiami al telefono e si disinteressano di te, quando cerchi di contattare le aziende e non ci riesci, quando chiami un centralino, quando hai qualcosa che non va nei prodotti acquistati. il brand si vive quando qualcuno che tu percepisci come “azienda” ti guarda e come ti guarda, quanto ti parla e cosa dice. Li nasce il vissuto del brand.

La sola differenza che vedo, ora, è che esistono nuovi strumenti (es: le neuroscienze) che offrono prove di quanto prima si teorizzava.

Storie di ordinario disinteresse. Ieri sono entrato in un concessionario di auto di un brand tedesco tra i più noti del mondo. Dopo 20 minuti di attesa, dove nessuno si è degnato di chiedersi cosa ci facessi li, me ne sono andato. Non puzzavo, ero vestito bene (camicia bianca e abito scuro), non sembravo un punkabestia, avevo persino un leggero strato di gel che offusca i capelli grigiastri sulle tempie che (dicono…) fanno tanto George Clooney (a me fanno solo incazzare, ma non fa niente)…. come un povero ebete… giravo per la concessionaria… allibito… in un clima surreale post-nucleare, tipo quello di un un ufficio ministeriale in cui entri e tutti fanno qualcosa tranne guardarti…  entravo e uscivo dalle auto per riempire il tempo e il disagio, cercavo disperatamente con gli occhi qualcuno cui chiedere qualcosa. Volevo un preventivo. Niente da fare. Una povera receptionist mi guarda e apre le braccia come per dire:  sono tutti occupati in altro (e non c’erano altri clienti in quella concessionaria alle 16). Non penso neanche di tornarci.

Vivere il brand significa tanto, ma vorrei soffermarmi un secondo su due significati particolari: (1) aiutare tramite il brand le persone, concretamente, e (2) fare qualcosa che si collega agli eventi di vita delle persone. Io vivo un brand se questo è parte della mia vita. In caso contrario “conosco” un brand, ma non lo vivo. Vivo un brand quando le persone me lo fanno vivere, e non credo più alla pubblicità se non tocco con mano, sono diventato diffidente, e come me tanti altri, a forza di scottature.

Se dimentichiamo la dimensione del brand come “aiuto” concreto verso i bisogni del cliente scivoliamo nella pura dimensione pubblicitaria che non si concretizza nei comportamenti reali, quotidiani. In questo caso saremmo solo in un ambiente falsamente vivo, di plastica, patinato e di pura immagine, che non è il nostro.

L’aiuto verso i bisogni del cliente ci permette inoltre di non fermare l’attenzione all’atto di acquisto ma di entrare nella dimensione dell’uso del prodotto, la vera dimensione (nessuno di noi compra ad esempio una TV come soprammobile, salvo alcune patologie, ma ricerca un beneficio d’uso o di possesso correlato al prodotto acquistato). La dimensione dell’utilizzo quotidiano e dei “costi psicologici” che rallentano un acquisto o ne diminuiscono la fruizione completa, sfugge spesso al marketing, tanto concentrato su costi e ricavi quanto poco attento a cosa accade ai prodotti una volta pagati, a come questi entrano nelle case e nella vita delle persone (la dimensione micro-sociologica o etnometodologica, direbbero gli accademici).

Non mi piace parlare con i robot telefonici, e vorrei che mi chiedessero cose serie. A me, ad esempio, Vodafone continua a far telefonare da un robot-software (pensando che apprezzi parlare con voci registrare e non abbia di meglio da fare), per sapere se il povero ragazzo (che io immagino nella mia menta un CO-CO-CO che non arriva alla fine del mese), il quale ieri mi ha risposto al servizio 190, mi è piaciuto. Non mi ha mai chiesto una volta se la benedetta e pubblicizzatissima chiavetta va sempre come vorrei, cioè in UMTS, o quante volte mi ritrovo invece incastrato con una connessione al rallenty, che fa persino rimpiangere i vecchi modem. La dimensione più banale, l’analisi dell’uso quotidiano del prodotto, sembra essersi persa, dimenticata, nonostante i tanti powerpoint sventolati nei Business Master MBA, e dalle mitiche (e mi sia consentito, plasticose) società di consulenza internazionali che trasudano di parole anglofone tanto quanto sono disancorate alla vita dell’uomo della strada e della famiglia dei paesi, delle città, delle provincie.

Acquisto frenato. Altro esempio concreto, da un caso reale di acquisto problematico: acquisto di un TV al plasma di nuova generazione, bloccato, frenato e posticipato dalla “paura” di non sapere come collegarlo a tutti i dispositivi già esistenti collegati alla TV precedente.

Nel caso reale: acquirenti poco alfabetizzati dal punto di vista informatico, etò 66 e 73, con TV attuale collegata a lettore DVD, lettore VHS, decoder attuale in funzione, per canali a pagamento di una nota impresa televisiva cui non facciamo pubblicità. Tutti questi dispositivi ora funzionano magicamente assieme, dopo diversi interventi di tecnici (chiamati dopo ore di disperati tentativi autonomi, in un groviglio di cavi tragicomico), e la sola idea di dover ripartire da zero, sostituire tutto e dover riconfigurare tutto da soli spaventa i due acquirenti. Per non parlare della incredibile confusione tra tecnologie LCD, plasma, ultra-led, tutto-tronics, ultra-flat, e altri misteri della fede, che i poveretti davvero non capiscono (anche se la differenza di prezzo può essere di migliaia di euro).

Brand Caldi e Brand Freddi

  • Cosa farebbe un Brand Vivo, un Brand Caldo,  nella Grande Distribuzione o in altro settore, di fronte a questo stato di cose?
  • Cosa farebbe un Brand Passivo, un Brand Freddo,  nella Grande Distribuzione o in altro settore, di fronte a questo stato di cose?

Dobbiamo consigliare a queste persone di rivolgersi ad un negozio specialistico o ad un installatore? Dobbiamo pensare che in fondo non è un problema nostro? Il loro problema diventa il nostro problema o rimane loro? Il filo rosso che collega il cliente al brand finisce appena usciti dalla barriera delle casse? E dove inizia? Come essere e diventare referenti assoluti e prioritari di una categoria di bisogni? Domande non facili.

Ma il problema non si ferma qui. Anche supposto che si attivi qualche forma di servizio, a pagamento o in coordinamento con service esterni, questo andrebbe comunicato adeguatamente. Come insegna una legge basilare del marketing, nessun valore è tale se non percepito.

E siamo certi che un eventuale installatore riesca a mentenere elevato il valore del Brand, non essendo parte (banalmente) della stessa partita IVA, ma lavorando per la propria?

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Articolo di Daniele Trevisani, anticipazione editoriale dalla rivista Communication Research n. 2/2010, Copyright.

La microsegmentazione e la costellazione di consumo

Autori: Giorgio Agosto (Novacoop, Dirigente Vendite Canale Super), Valeria Fabbroni (Coop Italia, Marketing Manager Food Canale Super), Roberta Neri (Coop Adriatica, Responsabile Ufficio Ricerche e Ascolto), Lorenzo Pisoni (Sait, Coordinatore Assistenti Merceologici Area Food e Non Food)

Definizione dei concetti

Per microsegmentazione si intende l’identificazione dei segmenti all’interno di  ciascun prodotto-mercato preso in considerazione, costituiti da soggetti legati tra loro da aspettative e comportamenti comuni

Per costellazione di consumo si intende un gruppo di prodotti complementare, marche e/o attività di consumo utilizzate per costruire, dare un significato ed esprimere un ruolo sociale.

 

Alcuni esempi pratici

Cultori del “km 0”: rappresentano un microsegmento del consumatore interessato, attento all’enogastronomia. E’ un acquirente sensibile ai valori della propria terra, che ricerca fornitori affidabili, è esigente verso i prodotti che sceglie e allo stesso tempo crede nel rispetto dell’ambiente e nel contributo che ciascuno può dare per il raggiungimento di questo obiettivo.

Predilige prodotti non industriali, frutto di lavorazioni naturali, consuma la frutta e verdura di stagione del suo territorio, valorizza l’economia locale e la sostiene, ha aspettative di risparmio dovute ai minori costi logistici.

Gli amanti dei viaggi di avventura: cercano nel viaggio un forte momento di esperienzialità, di coinvolgimento; prediligono mete non comuni, poco turistiche. Si affidano ad agenzie specializzate e riconosciute nel settore, che permettano loro di vivere a 360 gradi la cultura dei posti che visitano. Hanno un approccio “easy”, con capacità di adattamento a situazioni anche estreme; disponibilità di spesa medio-alta, mentalità aperta e curiosa, amano fotografare per riportare testimonianze. Ricercano reportage in tv e acquistano riviste specializzate, consultano internet.

Possibilità di sperimentazione

Anche all’interno delle nostre realtà di vendita è possibile attuare sperimentazioni che coinvolgano microsegmenti. Di seguito proponiamo alcuni esempi.

“Km 0”. Inserimento in assortimento di referenze di produttori locali. Predisposizione di materiale informativo sui prodotti di stagione. Formazione del personale sui prodotti locali. Coerenza ed armonizzazione con il resto dell’offerta commerciale (es. attenzione alla provenienza dell’ortofrutta). Vendite guidate con partnership con produttori locali.

Viaggi avventura. Organizzazione di Focus group, incontri a tema, forum on line con soci Coop per progettare e programmare viaggi e fornire consulenza agli altri viaggiatori. Concorso a premi sul prodotto Solidal Coop: messa in palio di un viaggio per conoscere le realtà produttive che forniscono i prodotti a Coop. 
Organizzazione di incontri tematici per confronto con culture e società diverse.

Vivere il brand Coop  
Esempio di Brand caldo: Solidal Coop → Microsegmento “Viaggi Avventura”
Esempio di Brand freddo: Moneta che ride

Bibliografia e fonti
Lan Nguyen Chaplin, Tina M.Lowrey, “The Development or Consumer-Based Consumption Constellations in Children”, Journal of Consumer Research, feb. 2010

Daniele Trevisani, “Modelli tradizionali e nuovi modelli di segmentazione di marketing”

COME LA MARCA COOP PUO’ ESTENDERE E SELEZIONARE I SUOI ASSORTIMENTI SINO AD ORIENTARE LE SCELTE DEL CONSUMATORE

Autori: Marco Monetti resp. Customer Care e Innovazione Servizi Unicoop Tirreno, Maura Sammartino Capo Servizio Formazione canale Ipermercati NovaCoop, Roberto Meglioli resp. Servizio Marketing Coop Consumatori Nordest, David Orvieto Ufficio Commerciale Sait Società Cooperativa

 

Premessa

Nell’attuale situazione di proposte commerciali è evidente la necessità di consolidare il valore del brand e ricercare nuove estensioni che ne possano aumentare la percezione verso il consumatore veicolandone tutte le fasi di proposta di acquisto.

In questo caso possiamo dire che Coop parta avvantaggiata rispetto al posizionamento riconosciuto dai consumatori all’interno del panorama competitivo. Questo non vuol dire che la ricerca del mantenimeto e sviluppo siano più semplici rispetto ad altri competitor, anzi partendo dalle attese che di solito Coop crea nel consumatori, il lavoro di individuazione del legame fra proposta ed acquisto risulta ancora piu difficile.

Nella particolarità di Coop i punti di forza che possono essere usati nella ricerca di estensione di assortimento risiedono sicuramente nell’attento ascolto delle necessità della base sociale e in un osservatorio esterno attivo a monitorare le evoluzione di mkt e i trend che questo crea con nuove offerte.

Elemento fondamentale diventa il fattore conciliante tra la domanda, l’analisi di fattibilità e l’aderenza al marchio. Le fasi di avvicinamento ad una proposta di estensione o di consolidamento di prodotti a marchio deve avere un percorso definito composto da piani di analisi che prendono in considerazione vari aspetti relativi alla sostenibilità del prodotto.

 In questo lavoro, intendiamo definire un percorso utile alla progettazione di una nuova proposta, e alle fasi conseguenti che la portino ad essere elemento tangibile.

 

Il brand COOP: un vero e proprio “individuo” protagonista del nostro tempo

 Struttura.

Identificazione della proposta


ASCOLTO: ascolto attivo dei soci/consumatori/trend di mercato;
NECESSITA’: rilevazione puntuale di quanto definito dall’ascolto attivo;
ADERENZA: aderenza rispetto alla missione, alla capacità, sostenibilità che Coop può trasferire nella proposta;
RICONOSCIBILITA’: quanto i consumatori si riconoscono all’interno della proposta, come individuo.

Temi per lo sviluppo della proposta

AFFIDABILITA’: risiede nella capacità del brand di sviluppare un prodotto che risulti essere affidabile nella comparazione con gli altri prodotti presenti all’interno del mkt;
RELAZIONE: capacità di formazione/informazione del brand verso i propri dipendenti al fine di poter comunicare in modo efficace e “caldo” il percorso e il risultato del percorso;
COMUNICAZIONE: è la capacità di utilizzare in modo funzionale/ridondante tutti i canali comunicativi per posizionare e promozionare in maniera corretta il prodotto (es web, punto vendita ecc);
COMPETENZA: capacità di risultare competenti e convincenti nella presentazione della proposta, e nelle risposte alle eventuali domande, va perseguita tramite una efficace informazione/formazione;
RACCOMANDAZIONE: il concetto risiede nella possibilità di essere raccomandati da parte dei clienti ad altri clienti che hanno utilizzato il prodotto, in pratica nella realizzazione di un passaparola positivo.

Ipotesi di progetto: pannelli solari a marchio COOP

ASCOLTO: si rileva la necessità diffusa di un reale e immediato risparmio sul consumo di energia elettrica.
Proposta: utilizzo di focus group e questionari per confermare, e verificare la necessità percepita e ipotizzata;
NECESSITA’: rilevazione della congruenza dei soci e dei clienti rispetto a Coop, come costruttore ed installatore di strumentazione eco-compatibile che sfrutti l’energia solare per la produzione elettrica.
Proposta: utilizzo di metodi qualitativi e quantitativi tramite questionari e focus group
ADERENZA: verifica della possibilità di sviluppo del progetto rispetto alle filiere di produzione, certificazione produttori/processi, posizionamento di mkt e sulla sostenibilità qualitativa del prodotto.
RICONOSCIBILITA’: verifica di un riconoscimento certo da parte del consumatore rispetto al prodotto creato, attraverso test di utilizzo (approvato dai soci);
AFFIDABILITA’: progetto di comunicazione sull’affidabilità del prodotto tramite test di comparazione;
RELAZIONE: percorso formativo a tutti gli attori coinvolti nel progetto e alle persone demandate alla relazione con i soci/clienti rispetto a tutti i valori (eco- compatibilità, prezzo, vita del prodotto, utilizzo ecc) affinche vi sia una consapevolezza del prodotto realizzato, consapevolezza comunicabile in maniera chiara ai soci clienti;
COMUNICAZIONE: progettazione di una campagna di comunicazione ad hoc per i mezzi ritenuti idonei e utilizzabili (web, cartellonistica, folder ecc). Studio in modo mirato dei concetti che risultino efficacei e convincenti rispetto al posizionamento del prodotto;
RACCOMANDAZIONE: obiettivo che il prodotto sia raccomandato da chi l’ha acquistato.

Bibliografia:  

Applicazioni della Teoria dell’Azione Ragionata ai comportamenti di acquisto

Applicazioni della Teoria dell’Azione Ragionata ai comportamenti di acquisto

Numerosi studi applicati al marketing hanno trovato conferme della possibilità di utilizzare la TPB e la TRA per analizzare i comportamenti del consumatore e formulare strategie di marketing avanzate.

Il potere predittivo del modello è alto per numerosi tipi di acquisto, e quindi costituisce uno strumento indispensabile per capire il fenomeno della vendita e dell’acquisto. Ne approfondiremo alcune caratteristiche.

Partiremo dal modello fondamentale, la Theory of Reasoned Action, applicandola al comportamento di acquisto.

Esponiamo di seguito il modello, che servirà da mappa di navigazione per la parte rimanente del capitolo.

La motivazione all’adattamento e le aspettative altrui

Come vediamo, l’individuo (cliente o buyer) è sottoposto a due pressioni principali: il gradimento individuale (atteggiamento verso l’acquisto: mi piace o non mi piace questo prodotto?) e la reazione anticipata dei gruppi di riferimento (o norma soggettiva): come reagiranno gli altri?

La terza variabile che interviene è la motivazione all’adattamento (motivation to comply).

Per “motivazione all’adattamento” si intende quanto l’individuo sia o meno propenso ad adattarsi alle aspettative dei gruppi di riferimento.

In sostanza questa variabile ha a che fare con il livello di autonomia decisionale dell’individuo – una variabile che differisce molto da persona a persona, e anche – nella stessa persona – da situazione a situazione.

Esempio di esplicitazione della componente normativa:

La mia famiglia pensa che

Io dovrei ___  ___  ___  ___  ___  ___  ___ Io non dovrei

Comprare una BMW cabrio

Esempio di esplicitazione del livello di motivazione all’adattamento:

In genere, nell’acquistare un’auto, valuto anche l’opinione della mia famiglia

Per niente  ___  ___  ___  ___  ___  ___  ___ Moltissimo

La psicologia delle scelte di acquisto è resa complessa dal fatto che in molte situazioni:

  • L’individuo non possiede un atteggiamento dicotomico (bianco o nero, buono o cattivo) verso il prodotto/soluzione, ma ne coglie le sfumature. Di un computer Apple posso ad esempio considerare eccezionale il look, ma posso nutrire riserve sulla interscambiabilità dei dati. La domanda giusta non è tanto “piace o non piace”, ma cosa piace e cosa non piace del prodotto/servizio.
  • L’individuo non ha una sola persona o un solo gruppo cui fare riferimento, e le attese latenti dei diversi gruppi sono spesso in antitesi. Per un PR di discoteca, la famiglia può attendersi un abito sobrio, mentre in discoteca esiste un’attesa di abbigliamento trendy. Quindi a quali gruppi dare ascolto? Chi accontentare, chi scontentare? E poi: dare ascolto o agire in totale autonomia? E con che conseguenze?
  • Le pressioni culturali e i messaggi educativi ricevuti dai consumatori creano dissonanza: a volte spingono l’individuo verso un elevato stato di autonomia, ma allo stesso tempo chiedono conformità e non-devianza dalle regole vigenti e capacità di adattarsi alla cultura circostante.

1.1.1.1.      Come si formano le intenzioni d’acquisto

Le ricerche hanno dimostrato che i due fattori primari (atteggiamento e componente normativa) non forniscono un contributo sempre uguale alla formazione delle intenzioni.

In alcune circostanze le intenzioni dell’individuo sono determinate in larga misura dal gradimento verso il prodotto, e le considerazioni normative giocano un ruolo minoritario o nullo, mentre in altre circostanze il fattore normativo ha un peso molto elevato, e le valutazioni personali sul prodotto vengono messe da parte.

Il peso (Weight) dei due fattori nell’influenzare le intenzioni quindi è variabile.

Le intenzioni comportamentali di un individuo sono una duplice risultanza della componente attitudinale e della componente normativa, ciascuna appropriatamente soppesata.[1]

Fig. 45 – Peso delle componenti sull’intenzione comportamentale

Realizziamo ora un esempio di applicazione del modello di analisi ad un comportamento di acquisto di una autovettura[2].

Valutazione dell’intenzione comportamentale:

Avendone la disponibilità, acquisterei una BMW modello cabrio

Probabile  ___  ___  ___  ___  ___  ___  ___ Improbabile

Valutazione dell’atteggiamento verso il prodotto:

La mia opinione è che la BMW modello cabrio sia un’autovettura

Buona  ___  ___  ___  ___  ___  ___  ___ Pessima
Sicura  ___  ___  ___  ___  ___  ___  ___ Insicura
Di qualità elevata  ___  ___  ___  ___  ___  ___  ___ Di scarsa qualità

Valutazione della componente normativa:

Sono convinto che la mia famiglia reagisca

negativamente  ___  ___  ___  ___  ___  ___  ___ positivamente

alla mia decisione di acquistare una BMW cabrio

Sono convinto che i miei colleghi di lavoro valutino

negativamente  ___  ___  ___  ___  ___  ___  ___ positivamente

il fatto che io acquisti una BMW cabrio

Valutazione della propensione ad adattarsi alle aspettative altrui

In genere, nell’acquistare un’auto, tengo in considerazione ciò che la mia famiglia si aspetta da me

Per niente  ___  ___  ___  ___  ___  ___  ___ moltissimo

Per l’acquisto dell’auto, considero l’opinione dei miei colleghi di lavoro

Per nulla importante  ___  ___  ___  ___  ___  ___  ___ molto importante

Rispetto alla valutazione della propensione all’adattamento, è necessario monitorare non una “generica propensione”, ma la intenzione specifica ad adattarsi ai singoli diversi gruppi o persone che compongono il quadro psicologico degli “altri rilevanti”. Una formulazione errata è la seguente:

Per l’acquisto dell’auto, penso sia importante fare riferimento alle possibili reazioni dei miei colleghi di lavoro e dei miei amici

Per nulla importante  ___  ___  ___  ___  ___  ___  ___ molto importante

Il motivo dell’errore è che le reazioni degli amici intimi possono essere molto diverse da quelle dei colleghi di lavoro, e quindi potremmo essere tratti in inganno da domande mal formulate.


[1] La formulazione di base della teoria dell’Azione Ragionata è la seguente: BI = (AB) W1 + (SN) W2, dove BI si riferisce alla intenzione comportamentale (Behavioral Intention), AB rappresenta l’atteggiamento verso il comportamento (Attitude towards Behavior), SN rappresenta la norma soggettiva (Subjective Norm) o atteggiamento previsto dei gruppi di riferimento, mentre W1 e W2 sono i pesi di ciascun fattore (Weights).

[2] Le tematiche metodologiche riferite alla misurazione delle variabili psicologiche di prodotto necessiterebbero una ampia trattazione apposita, che non è possibile realizzare in questo contesto. L’esempio successivo è quindi puramente indicativo delle aree di ricerca e non esaustivo delle metodologie scientifiche di misurazione adottabili.

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Copyright, Articolo di Daniele Trevisani, estratto dal volume “Comportamento d’acquisto e comunicazione strategica”, Milano, Franco Angeli editore.

Materiali didattici in uso presso Gruppo Consum-Attore, Scuola Nazionale Coop

Teoria del comportamento pianificato

Il modello è stato sviluppato per prevedere i comportamenti nei quali il soggetto non dispone del completo controllo volitivo, perché qualche barriera interna od esterna si frappone all’azione.[1]



La teoria prevede che anche un compito difficile può essere tentato, se la percezione di potercela fare è alta (del tipo “potrei persino lanciarmi da un grattacielo, se penso di aver gli strumenti per atterrare bene”).

Viceversa, anche azioni semplici non verranno attuate, se l’individuo percepisce barriere tali (interne o esterne) che lo possano bloccare (Es: “non ce la farò mai a parlare a quella persona, sono troppo timido”).

Queste percezioni partono dall’esperienza passata, da un analisi del proprio stato attuale, e dall’anticipazione di circostanze future (credenze sul futuro).

Uno dei contributi importanti fornito dalla T.P.B. consiste nel far emergere l’importanza delle credenze del soggetto come principali determinanti del suo comportamento: credenze soggettive, e non realtà oggettive.

Le credenze, come tali, possono essere anche profondamente errate, dovute a disinformazione, o scarsa conoscenza di stati reali, situazioni oggettive e dati di fatto.

Nel modello osserviamo infatti che:

  • sono le credenze sugli esiti dei comportamenti a creare l’atteggiamento verso l’intraprendere o meno un’azione (non le prove reali sugli esiti dimostrabili del comportamento);
  • sono le credenze su come gli altri reagiranno, a creare la percezione di doversi adattare alle aspettative altrui (non la conoscenza reale di come gli altri reagiranno, ma una pura ipotesi anticipativa di tale reazione);
  • sono le credenze del soggetto rispetto a ciò che egli può o riesce a fare, e non le sue reali capacità, a limitare il campo del fattibile.

1.1.1.             Behavioral Beliefs: le credenze comportamentali

Le credenze comportamentali collegano il comportamento target ai suoi esiti previsti. Es: “credo che per avere maggiore forma fisica si debbano assumere molte vitamine”. Questo pensiero rappresenta una pura credenza, che in alcuni casi non trova riscontro nella realtà. Infatti l’assunzione di vitamine, da sola, non è sufficiente a creare forma fisica, e in alcuni casi di sovradosaggio può anzi danneggiare l’organismo. In sintesi:

  • Una credenza comportamentale è la probabilità percepita che il comportamento target produca un certo risultato (outcome), un risultato che potrà essere positivo o negativo.
  • La somma delle credenze possedute dall’individuo forma l’atteggiamento verso il comportamento.

Poniamo il caso di un consumatore di fronte alla scelta di acquistare cerchi in lega leggera per la propria auto. Una delle pulsioni verso l’acquisto nasce dalla credenza che il cerchio in lega sia più leggero e riduca gli spazi di frenata dell’auto. Se questo risultato (outcome) è valutato molto positivamente (il cliente è molto sensibile al discorso “sicurezza”), la credenza inciderà positivamente sulla propensione specifica all’acquisto.

La propensione d’acquisto tuttavia è influenza da tutto l’insieme di credenze del cliente. Se una credenza ulteriore è che i cerchi in lega possano arrugginire facilmente, prima dei cerchi tradizionali (un outcome negativo), avremo una fonte di credenze che riduce la propensione all’acquisto.

La scelta si farà più difficile in quanto due credenze diverse, dai risultati attesi opposti (uno positivo, l’altro negativo), sono in conflitto, creando dissonanza cognitiva nel cliente.

Compito di chi vende o agisce nel marketing è quindi scoprire:

  • quante e quali sono le credenze “attive” nel soggetto;
  • quante e quali sono positive, negative, e con che intensità;
  • come le credenze si rapportano tra loro (decostruzione della mappa mentale delle credenze o belief-system);
  • quali credenze sono tra di loro in antitesi, creando dissonanza palese o latente;
  • quali credenze possono essere create per modificare lo stato attuale;
  • su quali credenze è più agevole agire per modificarne la direzione o intensità;
  • quali sono determinate da valutazioni d’esperienza personale, e quali sono basate su fonti non validate.

1.1.2.             Normative Beliefs: le credenze normative

Le credenze normative si riferiscono alle aspettative comportamentali percepite nei referenti importanti per l’individuo (persone o gruppi), quali la moglie o marito, famiglia, amici, colleghi, collaboratori o capi, clienti, partner, concorrenti o fornitori, e altri che assumono funzione di referenti in relazione al ruolo ricoperto e al comportamento in esame.

Le credenze normative (ciò che pensiamo gli altri vorrebbero noi facessimo o non facessimo), in combinazione con le motivazione ad adattarsi alle aspettative altrui, formano la “norma soggettiva”.

In termini psicanalitici, dobbiamo ricordare che il modello TRA non include soggetti importanti che possono anche non essere presenti, ma fungono comunque da “altri soggetti di riferimento”. Gli “altri latenti” o “referenti latenti” sono soggetti cui l’individuo guarda mentalmente per capire se questi sarebbero contenti o meno dell’azione che sta per intraprendere. Vediamo da una nostra trascrizione d’intervista in profondità come questo fenomeno degli “altri latenti” sia presente in modo marcato:

Quando sto per fare qualcosa di importante penso sempre se mia nonna avrebbe voluto o no, lei si che sapeva come si stava al mondo…. era una persona eccezionale. Mi ha cresciuto lei.

I “referenti latenti” possono essere anche figure istituzionali cui l’individuo si ispira per analizzare la bontà di un suo comportamento: Padre Pio, Che Guevara, il Papa, un leader politico ammirato, il collega di tanti anni fa che ha svolto da mentore e ispiratore, un docente carismatico, e altri.

Gli “altri rilevanti reali” sono invece soggetti presenti fisicamente nella vita del soggetto, soggetti con i quali ha realmente a che fare. Questi soggetti sono spesso multipli, nel senso che in molte scelte l’individuo deve render conto a numerose persone e gruppi Es: scegliere un abito ha un’influenza sia sulla famiglia che sul gruppo di persone con cui si lavora. Le loro “opinioni latenti” sulla bontà dell’acquisto agiscono in background sulla scelta.

Anche in questo caso dobbiamo notare che si tratta comunque di credenze: un cliente potrebbe rifiutare un acquisto gradito, nell’ipotesi che la mogli abbia una reazione negativa, o un buyer potrebbe evitare di svolgere un acquisto di soluzioni informatiche per un motivo simile (timore di ripercussioni da parte di colleghi che non apprezzeranno la scelta).

Questo rappresenta un problema dal momento in cui non si tratta di certezze ma di credenze, e come tali suscettibili di errore e percezioni distorte della realtà.

In termini di marketing, il lavoro sulla norma soggettiva richiede al venditore la capacità di modificare la percezione del rapporto individuo-gruppi, in due direzioni:

  • direzione A: emancipando l’individuo dalla pressione percepita dei gruppi, o,
  • direzione B: facilitando l’acquirente a vendere egli stesso l’idea della soluzione ai propri gruppi di riferimento, fornendogli argomentazioni adeguate.

Bisogna, in altre parole, ridurre le pressioni sociali percepite verso il non-acquisto ed eliminare la fonte di obiezione “quelli che contano per me non vorrebbero questo acquisto”.

Nel caso delle opinioni latenti negative sull’acquisto di un prodotto informatico

“se fosse vero, dati alla mano, che questa soluzione fa risparmiare all’azienda 50.000 euro all’anno, a parità di risultato rispetto alla situazione attuale, può essere per Lei interessante parlarne al suo Amministratore Delegato? Come pensa reagirà? Quali sono i dubbi che potrebbe avere? Che reazione avrebbe?”

Questi casi si inseriscono all’interno dell’ampia gamma delle riflessioni guidate indirizzanti, la cui tecnica verrà ulteriormente ampliata nei prossimi lavori di ricerca del metodo ALM.

1.1.3.             Control Beliefs: credenze sulle proprie capacità di controllo della situazione

Le credenze sul controllo degli eventi e sulle proprie capacità di azione sono al centro dell’intenzione di fare o no fare, agire o non agire, acquistare o non acquistare. “Sarò in grado di far digerire questo acquisto a mia moglie?” può chiedersi un marito. “È bello, ma sarò in grado di rendere realmente funzionante il nuovo sistema informatico?”, potrebbe chiedersi il buyer di un’azienda? “Sarò in grado di affermarmi anche se dovessi incontrare atteggiamenti ostili?” “Ho il controllo della situazione?” “Ce la posso fare?” sono altre domande inerenti le credenze sul controllo.

Il controllo comportamentale percepito si riferisce alla riflessione del soggetto rispetto alla sua abilità di “performare” un certo comportamento[1].

Le credenze sul controllo hanno a che fare con le presenza percepita di fattori che possono facilitare o impedire la prestazione o comportamento. Poniamo il caso di un manager che debba affrontare un discorso in pubblico: se anticipa tra gli uditori la presenza di elementi ostili, ma si ritiene in grado di dominarli, andrà tranquillamente verso la prestazione. Se non ritiene di avere le energie sufficienti per farlo, cercherà di evitare la situazione.

Il problema dei control beliefs non dipende solo dalla forza delle sfide esterne, ma anche e soprattutto dalla capacità interna che l’individuo sente di possedere, in relazione alle sfide (stato bio-energetico e psico-energetico dell’organismo)[2].

Anche sfide banali possono apparire gigantesche se i control beliefs sono negativi. Al contrario, il soggetto che sente di possedere grado elevato di autostima, sicurezza di sé, autocontrollo, e livelli energetici elevati, percepirà le condizioni per realizzare una buona prestazione, sia essa comunicativa, o in qualsiasi altro contesto comportamentale.

Relativamente all’acquisto, il cliente basa le sue credenze di controllo sulla base di passate esperienze, e giungere alla conclusione che “sì, sono in grado di gestire questa situazione, quindi procedo verso l’acquisto”, oppure “no, non ce la posso fare, è troppo difficile per me far passare la cosa, non sono in grado, non ce la faccio”, e quindi non procedere all’acquisto.

Le credenze sul controllo sono assolutamente diverse dal reale controllo che l’individuo possiede. Il controllo comportamentale reale si riferisce alle reali abilità, capacità e strumenti e altri prerequisiti posseduti, necessari per produrre un certo risultato o azione. Il controllo percepito si basa invece sulle credenze.

1.1.3.1.      La percezione di disponibilità economica, fattibilità e finanziabilità dell’investimento come leve facilitanti

La T.P.B. è in grado di spiegare numerose scelte del consumatore. I campi di applicazione di questo modello comportamentale sono vasti, e spaziano dal marketing finanziario al marketing turistico, dai comportamenti di consumo individuale agli acquisti aziendali. Ad esempio, nel marketing sportivo diverse ricerche evidenziano che la scelta di uno sport si basa spesso su percezioni errate di ciò che si è o meno in grado di fare. Queste credenze – errate – influenzano comunque la gamma di sport che si scelgono[3] (es: “non ce la farò mai a fare karatè” – profezia autoavverante che si ripercuote sull’atto di scelta).

La credenza “non ce la posso fare” caratterizza anche gli aspetti finanziari di molti acquisti.

Tra le cause che possono (1) bloccare o (2) fornire un “lasciapassare” all’acquisto, si inserisce un importante elemento del control belief: la percezione di poter finanziare l’investimento, di essere o non essere economicamente all’altezza della spesa.

Esistono infatti acquisti o investimenti aziendali che (a) sono personalmente ritenuti utili (= atteggiamento positivo), (b) non trovano barriere all’acquisto da parte dei gruppi di riferimento (= lasciapassare normativo), ma (c) sono percepite come troppo onerose in relazione alle disponibilità personali o aziendali (= blocco sul senso di controllo dell’investimento).

Nel metodo ALM è necessario porre attenzione sia ai dati oggettivi (es: il fatturato aziendale, la disponibilità economica misurabile) che al sistema di credenze dell’individuo.

I blocchi d’acquisto non partono solo da reali condizioni finanziarie o da vera indisponibilità ma anche da barriere mentali.

La percezione di non poter finanziare un investimento deriva spesso, nella nostra esperienza, da una errata allocazione dei budget mentali: casi in cui le risorse finanziarie esistono, ma sono mal distribuite.

In questi casi alcuni budget di spesa improduttivi sono sovrafinanziati, mentre nuove possibilità di investimento, più produttive, non hanno ancora trovato “canali mentali” aperti nel cliente[4]. Il caso tipico è dato dalla carenza di budget per la formazione. La formazione aziendale, se ben condotta, produce in realtà un ROI (Return on Investment) molto elevato, rispetto a spese in investimenti materiali che rimangono spesso inutilizzati.

Il venditore consulenziale dovrà quindi sapersi muovere su diversi fronti:

  • Aiutare il cliente a dirottare budget mentali da spese improduttive a nuove forme di investimento più produttivo. Il lavoro sui budget mentali implica un processo consulenziale e pedagogico sul modo di gestire le risorse del cliente, un’attività di che richiede grande professionalità.
  • Saper gestire la dilazione nel tempo dell’investimento (es: rateizzazione)-
  • Saper suggerire soluzioni di finanziamento dell’investimento tramite fonti diverse (da fonti pubbliche, quali i finanziamenti agevolati, a fonti private di credito).
  • Saper creare messaggi e comunicazione centrata sul ritorno dell’investimento (creare credenze positive su come l’investimento metterà il soggetto in grado di produrre più utile e fatturato, e quindi di ripagare abbondantemente la spesa).

Il supporto professionale del venditore/consulente consiste quindi nel creare maggiore percezione di controllo sulla finanziabilità, fattibilità e ritorno dell’investimento (messaggio: “anche tu puoi farlo”), sino a dirottare risorse da budget improduttivi ad altri budget (consulenza sui budget mentali).

Il consulente d’acquisto che agisce sui control beliefs si trova quindi ad agire non solo come consulente “di risultato” (cosa otterrai dall’investimento) ma anche come consulente sul metodo di finanziamento, là dove esistono barriere mentali dovute a credenze errate da parte del cliente sul fatto che l’investimento non sia alla sua portata.

Il consulente che intende agire sui control beliefs deve creare una relazione di aiuto nei riguardi del cliente, relativa al come implementare la soluzione. Questo significa accompagnare il cliente nel processo di cambiamento.

Ad esempio, una soluzione informatica costosa, ma gradita e produttiva, può trovare barriere dovute ai control beliefs quando il cliente pensa di non essere in grado di gestire la transizione al nuovo sistema informatico (difficoltà di migrazione).

Il consulente che offra un servizio di accompagnamento, tutoraggio e coaching nella transizione/migrazione al nuovo sistema rimuoverà in questo modo diverse barriere legate alla percezione “non ce la posso fare”, che caratterizza i control beliefs negativi. Questo significa vendere qualcosa di ben superiore al prodotto/servizio: la capacità di “vendere sicurezza”.


[1] Performare (to perform) è il verbo utilizzato dagli autori della TPB, e questo esprime il senso più profondo della sensazione di capacità nel fornire una prestazione.

[2] Fonte: Ricerche dell’autore (in corso) sulle relazioni tra sistemi energetici e prestazioni comunicative. Per ottenere informazioni sullo stato di avanzamento e prossime pubblicazioni inerenti il tema, inviare una mail a dt@studiotrevisani.it

[3] Bryan, A. D. e Rocheleau, C. A. (2002). “Predicting Aerobic Versus Resistance Exercise Using the Theory of Planned Behavior”. American Journal of Health Behavior, Volume 26 Number 2, March/April 2002.

[4] Per un approfondimento sulle teorie dei budget mentali, vedi capitolo 8 (“Budget Mentali e psicologia economica”) nel volume Psicologia di Marketing e Comunicazione. Milano, FrancoAngeli, 2002.


[1] Vedi Ajzen, I. (1991). “The theory of planned behavior”. Organizational Behavior and Human Decision Processes, 50, 179-211.

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Copyright, Articolo di Daniele Trevisani, Studio Trevisani, sintesi didattica al volume “Comportamento d’acquisto e comunicazione strategica”, Franco Angeli editore, Milano.

Pao Kickboxing Training with World Champion Franz Haller

Daniele Trevisani in Alpsarena  Bozen doing some Pao Kickboxing training with Master Franz Haller, World Champion

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Kickboxing Training on Pao with World Champion Master Franz Haller. Info about Daniele Trevisani DaoShi Kickboxing Martial System (Ferrara, Italy) at http://daoshi.wordpress.com – Info about Master Franz Haller (Bozen) at http://www.franzhaller.com