La progressione

Autore: Daniele Trevisani. Estratto dal volume “Il Potenziale Umano“, Franco Angeli editore, Milano, 2009, Copyright

2.2.  Attivare e potenziare le energie mentali: lo stato psi­co­e­nergetico e la preparazione psicologica

Jules: Per me è troppo stare insieme a te!

Hilary: Fammi capire… stare con me è troppo cosa?

È… troppo divertente? O troppo intenso? Troppo bello?

Jules: Richiede troppa energia.

Dal film: A time for dancing, di Peter Gilbert

Raggiungere il proprio potenziale non è solo materia muscolare o di sviluppo fisico. Anzi, vi sono attività nelle quali il supporto biologico e fisico è soprattutto latente, agisce in background, e predomina ampiamente la presenza di energia mentale e motivazionale.

Tra queste, le professioni prettamente intellettuali, o la prestazione didattica-educativa, o ancora le micro-prestazioni quali gestire una riunione tra manager, o l’atto dell’ascoltare un cliente, un collega, un familiare. In tutte queste situazioni, e in molte altre, le energie mentali sono fondamentali.

Anche nelle prestazioni più prettamente fisiche, come correre, lottare, combattere, o saltare, il grado di motivazione e le energie mentali addizionali possono fare la differenza tra una prestazione standard e una prestazione eccellente. La voglia di fare è più potente di qualsiasi integratore.

Le energie mentali si attivano ampiamente sul fronte delle relazioni interpersonali. Anche stare con una persona richiede energie. Nei rapporti umani vi sono storie che logorano e consumano energie, altre che ne danno, altri ancora che innescano forti flussi di scambio reciproco, e numerose sfumature intermedie. Servono energie anche per incontrare le persone.

In ogni attività umana la componente fisica rimane importante ma comunque il supporto biologico non è condizione sufficiente ad esprimere performance: è una condizione necessaria, ma non l’unica parte della ricetta.

Le attivazioni fisiche sono diverse, impegnando maggiormente il sistema cognitivo e relazionale nell’attività manageriale, e il sistema muscolare e respiratorio nel caso di azioni ad alta fisicità. Tuttavia, nessun manager può permettersi di non respirare, e nessun pugile può permettersi di non pensare. Sono dati di fatto. Corpo e mente funzionano bene solo in sinergia.

Mentre il supporto bioenergetico è decisamente variabile, il supporto motivazionale deve essere presente in ogni situazione nella quale si richieda sforzo, impegno, dedizione, presenza mentale.

Il senso della psicoenergetica è quindi orientato a cogliere la componente non fisica della performance e del wellness.

La prestazione umana è ampiamente condizionata dal fatto di sentirsi “su di morale” o “giù di morale”, pieni di “voglia di fare” oppure svuotati, “carichi” o “scarichi”. Una scarsa condizione psicoenergetica si traduce in senso di stanchezza psicologica, apatia, perdita di vitalità, incapacità di reagire o di fare.

Esistono certamente collegamenti importanti tra energie biologiche e energie mentali. Ad esempio, la condizione di insufficienza di zuccheri e di ossigeno nel sangue conduce ad una diminuzione della capacità di ragionamento. Il nutrimento biologico della mente è indispensabile per farla funzionare. Ma se la benzina è di scarsa qualità, il motore andrà male.

I tentativi goffi di accrescimento delle energie mentali agendo esclusivamente tramite la via biochimica, dimenticando il lato esistenziale, sono distruttivi. Gli interventi chimici vanno distinti da quelli esistenziali.

Curare l’infelicità con le medicine, o generare motivazione con una pillola non sono lo scopo di una via umanistica per le performance e il potenziale.

Ridurre tutto a chimica e fisica (riduzionismo psicofisiologico), impedisce di ragionare seriamente sul piano spirituale della vita. Negare un livello di valutazione esistenziale e filosofica dell’essere umano impoverisce l’analisi.

I rimedi farmaceutici finalizzati a risolvere il fattore “energie mentali” su un piano puramente biologico (sostanze psicoattive e psicofarmaci) sono da tempo considerati approcci insufficienti. Sono utili a spegnere incendi, non a creare felicità vera, lavorano sul sintomo e non sulla radice esistenziale di un disagio o della motivazione. E nemmeno possono durare a lungo.

Come evidenzia Jung, è molto riduttivo accettare una concezione materialistica…

secondo la quale la psiche sarebbe il prodotto delle secrezioni del cervello, come la bile lo è del fegato. Una psicologia che concepisca ciò che è psichico come un epifenomeno farebbe meglio a chiamarsi “fisiologia cerebrale” e ad accontentarsi dei modestissimi risultati che offre una psicofisiologia del genere[1].

 

Un’eccellente condizione psicoenergetica vede la persona lucida, “su di morale”, carica di energia e – nel campo professionale – creativa, concentrata, produttiva, più saggia, meno vittima degli umori, e, nel campo fisico, desiderosa di esprimere tutto il suo corpo nell’azione, vogliosa di fare, di sudare, di correre, saltare, lottare, muoversi, e di amare.

Le stesse attività che possono dare gioia (es.: correre, nuotare, giocare, fare una vacanza, stare con amici) diventano fonte di dolore se affrontate con livelli di energie mentali basse e in condizioni di umore negativo.

Sviluppare energie mentali elevate è un nostro obiettivo, ancora più sfidante rispetto al piano di lavoro delle energie fisiche, poiché lo stato di avanzamento delle conoscenze scientifiche sul funzionamento della mente è meno evoluto rispetto a quello sul corpo.

Il lavoro sulle energie mentali può essere avviato in un coaching ma diventa poi responsabilità della persona farlo diventare normalità, con un impegno essenzialmente quotidiano, continuativo, determinato dalla volontà di una progressione. Come evidenzia un classico di Jung:

Per progressione s’intende anzitutto l’avanzamento quotidiano del processo psicologico di adattamento. Come è noto, l’adattamento non si raggiunge mai una volta per tutte…[2].

Jung affronta, già nel 1928[3], i problemi dell’energia mentale, cercando (almeno concettualmente) di distinguere l’energia vitale dalla forza vitale. Secondo Jung l’energia vitale rappresenta un concetto soprattutto biologico, mentre la forza vitale sarebbe una specificazione di un’energia universale.

Possiamo o meno essere d’accordo, tuttavia il lavoro pionieristico di Jung avanza temi di frontiera e pone domande ancora non risposte, sulle connessioni tra energie biologiche e mentali, e su come accrescere l’“energia vitale”.

Ciò che sappiamo è che le energie mentali elevate non sono analizzabili in modo riduzionistico (solo biologicamente): esiste il tema delle condizioni esistenziali (e non solo biologiche), ad esempio una buona autostima e la fiducia in sé, il supporto degli altri, avere vicino persone sincere che ci apprezzano anche nei nostri difetti e non ci giudicano in continuazione, o il giocare un ruolo che si sente a pieno come proprio, tratti che non vogliamo esaminare solo sotto il profilo biochimico ma richiedono un intervento di analisi esistenziale.

Dobbiamo quindi comprendere che lo sviluppo delle energie mentali richiede il frutto congiunto di una analisi fisica delle condizioni biologiche dell’organismo (condizione bioenergetica) abbinata ad una analisi esistenziale dell’individuo.


[1] Jung, C. G. (1928), Energetica Psichica, Boringhieri, Torino, p. 48 (traduzione italiana, edizione 1970), p. 20.

[2] Ivi, p. 48.

[3] Ibidem.

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Copyright, Articolo estratto con il permesso dell’autore, dal volume di Daniele Trevisani “Il Potenziale Umano“, Franco Angeli editore, Milano.2009. Pubblicato con il contributo editoriale di Studio Trevisani Communication Research, Formazione e Coaching.

La relazione tra energie personali e aspirazioni personali

Autore: Daniele Trevisani. Estratto dal volume “Il Potenziale Umano“, Franco Angeli editore, Milano, 2009, Copyright

2.2. Gli effetti positivi delle immissioni di energie sui livelli di performance e di aspirazione

In termini di psicologia positiva notiamo che l’immissione di energia in una qualsiasi cella può apportare maggiori energie al sistema, e quindi riflettiamo sul fatto che esistono molteplici modi e strade, enormi opportunità, per poter accrescere le energie personali e fare coaching e formazione di qualità.

La liberazione da una catena, o “togliere un sasso dal proprio zaino”, può aprire le strade della volontà per una scalata ulteriore. In generale, le immissioni di energie in un certo stadio aumentano il livello di fiducia in se stessi, autostima e percezione di autoefficacia. Aumenta il senso di libertà.

Le osmosi energetiche portano ad una maggiore propensione dell’indi­viduo verso l’assunzione di rischio positivo, di accettazione di sfide che prima il soggetto riteneva impensabili o troppo pericolose. Per rischio positivo intendiamo azioni che non siano minate da un livello di aspirazione malato, superumano e maniacale, condotte col cuore ma anche con la ragione.

I livelli di aspirazione sono decisamente correlati alle energie circolanti.

Gli studi scientifici di Bresson individuano il livello di aspirazione come “il risultato che un soggetto si dà per un fine da raggiungere, in un compito che ammette diversi gradi di realizzazione”[1].

A bassi livelli di energie personali corrispondono bassi livelli di aspirazione. Le energie si abbassano drasticamente, e i compiti o goal che l’individuo sente di poter gestire si richiudono sempre più entro una nicchia, sino ad implodere, se la tendenza non viene invertita.

Quando mancano le energie, ogni rischio assume sembianze mostruose, persino lo scendere in strada, o l’incontrare altre persone. Al contrario, forti osmosi energetiche positive (contaminazioni positive tra energie fisiche, mentali, competenze, volontà) conducono alla voglia e consapevolezza di poter accettare sfide e rischi superiori, persino lanciarsi con un paracadute, o condurre una operazione chirurgia al cervello (per un medico), o accettare la sfida di avere figli in un mondo difficile (per ogni genitore), o iniziare a pensare di potersi laureare, per qualcuno che aveva rinunciato a questa idea non sentendosi all’altezza, e tante altre occasioni di crescita.

Per questo motivo, nel metodo HPM, quando i canali per introdurre energie sono bloccati da un certo lato (poniamo i valori, o le competenze), è possibile sia teoricamente che concretamente aggirare questo ostacolo. Potremo partire dalla base delle energie fisiche, o da altri canali aperti o apribili, per incrementare le energie totali del sistema. È un lavoro sperimentato e funzionante nella pratica, di cui troviamo crescente supporto teorico.

Avviare il lavoro, e sbloccare i meccanismi, è più importante che fare un lavoro ingegneristicamente perfetto ma – nei fatti – solo teorico, vuoto.

L’effetto di trascinamento e di osmosi positiva avrà riverberi anche sugli altri stati altrimenti inaccessibili per via diretta.


[1] Bresson, F. (1965), Rischio e personalità. Il livello di aspirazione, in Trattato di Psicologia Sperimentale, a cura di Paul Fraisse e Jean Piaget (1978), Einaudi, Torino, p. 458. Edizione originale: Traité de Psychologie Expérimentale. VIII. Langage, communication et décision, 1965, Presses Universitaires de France, Paris.

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Copyright, Articolo estratto con il permesso dell’autore, dal volume di Daniele Trevisani “Il Potenziale Umano“, Franco Angeli editore, Milano.2009. Pubblicato con il contributo editoriale di Studio Trevisani Communication Research, Formazione e Coaching.

Immettere energie e coltivare il potenziale personale

Autore: Daniele Trevisani. Estratto dal volume “Il Potenziale Umano“, Franco Angeli editore, Milano, 2009, Copyright

I meccanismi energetici nel modello HPM sono molteplici, ma per ora osserviamo due meccanismi in particolare:

  • le diffusioni energetiche: le immissioni di energia in un’area hanno implicazioni positive (fanno bene) anche alle altre aree;
  • i drenaggi energetici: i cali o blocchi di energia in un’area danneggiano anche le altre aree.

(Commento inedito da intervista all’autore: …per immettere energie nel sistema dobbiamo svolgere un lavoro allenante, partendo da qualsiasi “angolazione” di attacco sia per noi più facile in questo momento: fare sport, migliorare una tabella allenante, mangiare meglio, coltivare amicizie, tagliare con abitudini dannose, cercare le positività che non riusciamo più a scorgere, lottare per una causa giusta, impegnarsi in un progetto. Tutte le azioni positive hanno influenza sulla capacità del sistema nel suo complesso. Nessuna è inutile. Man mano che procediamo con azioni positive, il sistema personale ne viene potenziato e nuove azioni positive, prima giudicate impossibili, diventano progressivamente alla nostra portata).

 Le implicazioni per lo sviluppo personale sono numerose, ma soprattutto:

 – è possibile realizzare una strategia di immissione selettiva di energie in un’area, per poi utilizzarla come perno per lo sviluppo di altre aree. Ad esempio, creare grounding bioenergetico, il che significa lavorare principalmente sulle energie del corpo per poi poter “fare leva” su un corpo energeticamente carico, su un fisico forte, pronto ad assumersi impegni psicologicamente rilevanti, anche gravosi, goal e obiettivi sfidanti;

–  è possibile realizzare una strategia di immissione multipla di energie ricercando una crescita su più livelli e stadi. Ad esempio, lavorare sistematicamente e contemporaneamente su tutte le aree del modello HPM.

 In generale, un lavoro su un’area è possibile solo se i livelli energetici di base dell’area toccata sono a livello sufficiente per supportare carichi superiori. Se non vi sono condizioni minime, occorre trovare strade alternative.

Ad esempio, in campo manageriale è completamente inutile realizzare un intervento dalle grandi ambizioni  (job enrichment, job enlargement, role-modeling, e altri), attaccando lo strato delle macro-competenze, se le micro-competenze di supporto sono insufficienti. Se una persona non sa nemmeno gestire una riunione di un piccolo gruppo di lavoro, inutile passare a temi ancora più complessi che poggiano su competenze che ancora non ci sono.

Altrettanto inutile è riempire di competenze (skills) un manager se mancano le energie motivazionali (volontà) necessarie a mettersi in gioco.

Inutile studiare nuovi progetti creativi se l’intero team è in stato di demotivazione cronica o affaticamento. Una persona disabilitata nelle energie mentali non va da nessuna parte, non porta avanti nemmeno se stessa, e tantomeno il progetto più ambizioso che qualsiasi mente possa partorire.

In generale, in mancanza di energie, il “nuovo” non viene affrontato. Sem­plicemente non ci sono le forze per affrontare il cambiamento.

L’area psicoenergetica assieme a quella bioenergetica sono quindi ancoraggi forti di lavoro per un coaching e una formazione seria e analitica.

Saltarli piè pari e passare subito alle competenze applicative è inutile. Così come costruire progetti che richiedono presenza di energie che non ci sono.

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Copyright, Articolo estratto con il permesso dell’autore, dal volume di Daniele Trevisani “Il Potenziale Umano“, Franco Angeli editore, Milano.2009. Pubblicato con il contributo editoriale di Studio Trevisani Communication Research, Formazione e Coaching.

Le 6 aree di sviluppo per la crescita delle risorse personali

Autore: Daniele Trevisani. Estratto dal volume “Il Potenziale Umano“, Franco Angeli editore, Milano, 2009, Copyright

Le azioni di sviluppo del potenziale umano si dividono in:

  1. sviluppo bioenergetico: si prefigge di accrescere le energie del corpo, le forze fisiche, lo stato di salute, forze su cui poggiano tutti gli altri sistemi; vengono individuate sia azioni globali (es.: migliorare lo stato di forma fisico) che azioni localizzate su specifici micro-obiettivi, es.: aumentare la resistenza aerobica, migliorare la postura, rivedere l’alimentazione. Gli interventi si dividono in azioni (1) di riparazione (terapeutiche) o (2) di potenziamento; esse riguardano (a) economie dei distretti locali del corpo e (b) azioni centrate sull’economia corporea complessiva;
  2. sviluppo psicoenergetico: crescita delle energie psichiche, motivazione, volontà, spinta interiore ad agire e a progredire; rimozione di blocchi psicologici e stili di pensiero che impediscono di raggiungere il potenziale, individuazione delle auto-limitazioni, irrigidimenti cognitivi, credenze culturali autolimitanti o dannose per sé e per il team; lavoro di consapevolezza dei potenziali, riduzione dello stress negativo, incremento di autostima, lucidità decisionale, chiarezza delle proprie risorse interiori; il lavoro è sia sull’economia cognitiva generale (es.: ridurre l’ansia generalizzata, aumentare l’autoefficacia generale) che su economie di specifiche aree psicologiche in azione, es.: lavorare sull’ansia in un public speaking, o l’ansia pre-gara, o la visualizzazione mentale dell’evento;
  3. sviluppo delle micro-competenze: è un lavoro specifico, inteso come innestato all’interno di una matrice di obiettivi legati al ruolo. Richiede di individuare fattori che creano differenza tra un’esecuzione (1) scarsa, (2) normale o media, (3) un’esecuzione di alto livello (il nostro obiettivo finale). Gli esempi possono essere tanti. Es.: localizzare i dettagli che differenziano una vendita da principiante vs. una vendita di alto livello (dove sono esattamente le differenze?); capire le “distintività” (azioni, dettagli, micro-atteggiamenti, micro-comportamenti) che mette in campo un combattente professionista rispetto ad un dilettante, nella preparazione, e durante un incontro. O la differenza che c’è tra un rigore tirato bene e un rigore tirato male, o tra una riformulazione corretta e una sbagliata (per un terapeuta), o per un cuoco, il tempo ottimale di cottura e uno leggermente peggiore. La ricerca di dettagli delle performance può essere applicata in ogni campo. Possiamo localizzare le micro-competenze di un direttore, di un venditore, di un atleta, di un medico, di uno psicologo, di un negoziatore, di un educatore. Il lavoro sulle micro-competenze richiede sia una fase di riconoscimento (detection aumentata, stimolo della capacità di percezione e localizzazione) che una fase di formazione (lavorare sulle variabili prima isolate); produce inoltre un forte incremento della sensibilità ai dettagli, dell’attenzione, della capacità di trovare “cose concrete su cui lavorare”;
  4. sviluppo delle macro-competenze: le macro-competenze sono la connessione tra (1) il repertorio globale di abilità della persona e (2) il ruolo che quella persona vuole ricoprire. Le due sfere possono di fatto collimare perfettamente, o invece essere scollegate o ridotte (il che mette la persona in sicura difficoltà). Possono anche essere sovrabbondanti e anticipatorie dei futuri cambiamenti (creando agio e una condizione di maggiore elasticità e sicurezza). Prevedono l’esame del ruolo, delle aspirazioni, delle traiettorie, la rilevazione di gaps (lacune) e incoerenze professionali, analisi di bisogni di revisione o cambiamento significativo del proprio lavoro o della posizione professionale, dei ruoli giocati in campo; richiede valutazione e anticipazione dei mutamenti organizzativi cui dare risposta; sviluppo di una coerenza tra proprio profilo professionale e propri obiettivi di vita o obiettivi aziendali da raggiungere, tra le proprie aspirazioni e le opzioni reali dell’azienda e del team, ricerca di spazi nuovi di espressione;
  5. sviluppo della vision e del piano morale: localizzazione degli ancoraggi morali forti, dare spessore morale e senso alla vita e all’azione, costruzione e revisione di un piano di lungo periodo, costruire una linea di tendenza ideale, sognare e idealizzare una traiettoria di crescita positiva; coltivare saggezza nelle scelte, cercare un ancoraggio a valori guida, revisione della mappa di credenze morali e consolidamento di una filosofia di vita positiva. Comprende la ricerca di nuovi stimoli all’autorealizzazione, connessione a valori umani positivi e forti, senso pieno del fare e dell’esistenza, ricerca di un senso profondo dei progetti, trovare motivi e direzioni per cui vale la pena impegnarsi; e persino nuove aree di obiettivi esistenziali o/o professionali che diano sapore e senso alla vita, idee e pensieri ispirativi sui quali la persona non aveva ancora riflettuto.
  6. sviluppo di mete, traguardi, goal e progettualità necessaria: definizione di obiettivi precisi da raggiungere, misurabili, tempificabili; progettualità su risultati concretamente raggiungibili; sviluppo della capacità di gestione di tempi (time management) e progetti (project management), gestione efficace delle proprie risorse, capacità di concretizzazione, di realizzazione, abilità nel calare nella realtà un concetto o un obiettivo, trasformare una visione d’insieme in to-do-list (lista delle cose da fare); capacità di tradurre un ideale o un proprio valore in un piano di azione.

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Copyright, Articolo estratto con il permesso dell’autore, dal volume di Daniele Trevisani “Il Potenziale Umano“, Franco Angeli editore, Milano.2009. Pubblicato con il contributo editoriale di Studio Trevisani Communication Research, Formazione e Coaching.

Negoziare in Giappone. Alcune regole di cerimoniale e comunicazione interculturale (di Roberto Colella)

Negoziare con i Giapponesi. Regole di cerimoniale per evitare spiacevoli inconvenienti.

di Roberto Colella

In: Communication Research, n. 01/2010, Rivista di Psicologia, Comunicazione, Formazione, edited by Medialab Research, www.medialab-research.com con la collaborazione di Studio Trevisani www.studiotrevisani.it

Esistono personalità al mondo che possono essere avvicinate e toccate come ad esempio il Papa, la massima autorità religiosa cattolica. Ne esistono però anche altre altrettanto importanti che non possono essere neanche avvicinate. E’ il caso dell’Imperatore del Giappone di fronte al quale bisogna mantenere una distanza di 3 metri, a differenza dei 2 metri previsti per l’Imperatrice.

Questo è soltanto uno degli aspetti che riguardano il complesso e articolato cerimoniale giapponese.

La cultura giapponese è molto diversa da quella occidentale. Si potrebbe partire dal saluto. Sarebbe grave salutare un giapponese con una stretta di mano, ma a seconda del rango della personalità che si ha davanti, si usa un tipo di inchino che può essere a 45°, a 30° oppure soltanto un cenno.

Durante un incontro di lavoro per i giapponesi sono molto importanti i convenevoli. Risulta molto difficile che un giapponese risponda ad una domanda con un “No” secco, bensì è in grado di elaborare un lungo discorso il cui possibile rifiuto finale si cela dietro alcuni ammirabili ringraziamenti ed apprezzamenti.

Quindi l’esito di una proposta di accordo economico sarà il frutto di un lungo ed articolato discorso. Anche nel momento in cui si invia una lettera ad un manager giapponese evitare sempre di andare subito al sodo. La forma per i giapponesi è qualcosa di sacro!

Solitamente il personale lavora insieme nello stesso ufficio e allo stesso piano. Il manager si trova seduto in una posizione dalla quale riesce ad osservare tutti i dipendenti mentre lavorano. L’orario di lavoro va dalle 9 del mattino alle 17 del pomeriggio.

Se ci si reca in Giapponese durante i mesi di Luglio o di Dicembre, bisogna sapere che sono mesi in cui ci si scambia dei regali. Sul regalo apro una parentesi. Il regalo non va mai incartato con carta bianca perché simboleggia la morte, inoltre non va mai scartato davanti alla persona che ce  lo ha donato.

Per i giapponesi è molto sentita la distinzione tra ambiente esterno e ambiente interno. Prima di entrare in una casa giapponese bisogna togliersi il cappotto e poi le scarpe. In merito alle scarpe bisogna dire che la donna che accompagna l’uomo si fermerà a predisporre le scarpe in direzione di uscita, invertendo quindi la posizione con un movimento rotatorio. L’ospite verrà accolto nella stanza più lontana dalla porta di ingresso. Ricordiamo che una casa giapponese, almeno quelle tradizionali e non i grattacieli di Tokyo, sono costruite in legno, caratterizzate da porte scorrevoli e da almeno una stanza tatami.

Ovviamente anche nei ristoranti si cammina senza scarpe, sui pavimenti di tatami, mangiando la cucina tradizionale con hashi, i bastoncini di legno con i quali non bisogna mai infilzare il cibo. E’ quanto di più maleducato si possa fare.

All’interno dei ristoranti non si richiede il menù, visto che i piatti sono esposti in vetrina. La cucina giapponese resta in assoluto anche quella più internazionale, visto che il Giappone, Tokyo in particolare, è tra le nazioni simbolo della finanza e degli affari. Esempio di una tipica settimana: lunedì (pranzo all’occidentale), martedì (cinese), mercoledì (giapponese tradizionale), giovedì (sashimi), venerdì (curry), sabato (verdura o cibo di mare), domenica (tempura). Dare la mancia non rientra tra le consuetudini dei giapponesi in quanto negli alberghi, nei ryokan (tipici alberghi giapponesi) o nei ristoranti, il conto comprende un’aggiunta del 10-15% per il servizio. Quindi non lasciare mance.

Infine il Giappone è famoso anche per la sicurezza che regna nelle strade delle sue città. Le donne possono girare da sole sia di giorno che di notte e spesso si vedono bambini prendere da soli la metropolitana. Una giacca, una borsa o un portafoglio lasciati sul tavolo di un ristorante in attesa del loro proprietario, né preoccupano, né tentano nessuno.

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Copyright dell’autore, è consentita la riproduzione dell’articolo o di suoi estratti solo previa citazione dell’autore stesso e della fonte.

Operazioni centrate sugli effetti

I principi basilari delle Effects-Based Operations

hpm1Copyright, dal volume di Trevisani, Daniele (2007), Regie di Cambiamento. Approcci integrati alle risorse umane, allo sviluppo personale e organizzativo, e al coaching. FrancoAngeli, Milano. Diritti di riproduzione riservati. Sono possibili gli utilizzi per fini formativi, didattici e di ricerca, previa citazione dell’autore e della fonte. Altri materiali inerenti le Regie al sitowww.studiotrevisani.it/hpm1. Vedi inoltre  Scheda sintetica del volume su IBS

Attivare le Effect-Based Operations

Nelle imprese, per agire su problemi critici occorre atteggiamento “militare e militante”, l’esatto contrario del lassismo aziendale imperante.

Per costruire un atteggiamento “militante” verso il cambiamento non sono indispensabili salotti intellettuali, ma vere e proprie war-room, dove i target di variazione e di cambiamento vengono sottoposti ad analisi, e gli interventi a progettazione strategica, e revisione periodica, assidua, impegnata. La discussione intellettuale è importante ma serve per costruire modelli, per svolgere analisi illuminate, e non in sede operativa e tattica.

Nella war-room, o situation-room, i problemi vengono sottoposti ad analisi cercando di identificare le azioni che possono risolverli. Si tratta di un approccio basato sulla gestione delle emergenze, e tuttavia risulta utile appropriarsi del senso di coordinamento interforze che ritroviamo in questi ambienti.

La gestione di problemi critici (attentati, ostaggi, crisi politiche) fa emergere con grande forza la consapevolezza che una sola azione è insufficiente, ma occorre sinergia tra azioni. Di questo principio usato in termini di emergenza dobbiamo appropriarci anche per gestire le non-emergenze e le azioni aziendali.

Sia le emergenze che le operazioni di sviluppo fuori-emergenza fanno leva sulla Information Superiority (IS), la capacità di una Joint Task Force (JTF) di possedere informazioni comprensibili, multidimensionali, in tempo reale, congiunte ai dati di scenario, o ad ogni altro dato sensibile che può modificare la strategia.

La Information Superiority (IS) non è un concetto statico, predeterminato, quantificabile, ma è soprattutto una capacità o abilità. È connessa inestricabilmente con la situazione specifica, e determinata dalla missione, dall’ambiente, e dal bisogno di informazione che ogni progetto e momento aziendale porta con se.

Le war-room e le situation-room servono proprio a fare analisi di scenario, a far convergere le informazioni e a prendere decisioni in modo non improvvisato.

Uno dei principi che si fa strada con maggiore forza nel campo delle operazioni tattiche, militari e politiche, sono le effect-based operations (EBO): operazioni centrate sugli effetti). Nelle EBO, ogni azione di cambiamento viene valutata in termini di effetti o attivazioni che può produrre, da confrontare con gli effetti tattici e strategici che si intendono ottenere.

Esempio di diversi tipi di effetto da produrre: creare, consolidare, rimuovere

Il concetto cardine delle effect-based operations è il cosiddetto end-state o stato finale, una dichiarazione che e riguarda qualche aspetto della realtà e può essere solamente vera o falsa. Ad esempio, la frase “nella provincia di XYZ non si verificheranno più atti di violenza contro la popolazione da parte di bande armate” è uno stato finale di destinazione, i cui presupposti e requisiti richiedono ben più di una singola azione, ma una serie di eventi convergenti, sia militari che soprattutto politici, diplomatici, di sviluppo sociale e commerciale, di educazione e costruzione di infrastrutture.

La consapevolezza che le azioni di per sè non valgono nulla se non comparate agli effetti che produrranno ha cambiato il modo di gestire le operazioni sia militari che politiche, e le crisi correlate. Una singola professionalità non può essere sufficiente, mentre una joint task force (task force interdisciplinare sul cambiamento) può farlo. Questo approccio può e deve entrare anche nella gestione del cambiamento personale e organizzativo.

In termini militari, le EBO risultano un concetto giù ampiamente assimilato dai vertici più consapevoli del bisogno di differenziare strumenti da effetti:

Lo sviluppo di operazioni “effect-based” ha quale fine il conseguimento di un preciso obiettivo strategico mediante l’effettuazione di diversificate attività nel corso di tutte le possibili fasi di una operazione (pre-crisi, “combat”, post-conflittuale, ecc.).

In ciascuna fase, il raggiungimento degli effetti richiesti richiederà l’individuazione dei punti di vulnerabilità chiave avversari ed il loro contrasto con i più idonei strumenti d’impiego, che potrebbero essere anche non militari. In sostanza, le operazioni future saranno focalizzate più sui risultati che si vogliono conseguire che sui sistemi e mezzi disponibili per conseguirli[1].

Questi concetti sono validi in ogni campo del cambiamento organizzativo. Ad esempio, realizzare un Master Aziendale di per sè è una azione, non un effetto. L’effetto desiderato può essere quello di ottenere maggiore coesione e condivisione di concetti tra gli high-potentials dell’azienda, e ridurre il rischio di fuga di cervelli. Se è così è, dovranno essere prodotte altre azioni, oltre al Master, per consolidare l’effetto che si cerca di ottenere.

Potranno essere condotti progetti di scambio tra ruoli (job-rotation) in cui le persone riescano a capire come funzionano altri reparti, possono essere messe in piedi iniziative di tutoraggio (tutoring) e altri progetti motivazionali e finalizzati a sconfiggere il dropout. In ogni caso, aumentare la coesione e ridurre il dropout sono gli effetti, il Master e le iniziative sono operations.

Ogni iniziativa ha ripercussioni, siano esse positive o negative, e queste iniziative hanno maggiore impatto se sono in grado di innescare una cascata di effetti. Le iniziative in grado di generare una cascata di effetti sono più efficaci delle iniziative che limitano la loro portata ad un singolo ambito[2].

Ed inoltre, le iniziative con effetti cumulativi e sinergici sono più efficaci di iniziative che non si connettono l’una con l’altra[3]. Facciamo un esempio pratico: se vogliamo cambiare l’aria di una camera (effetto target: avere aria pulita), possiamo aprire la finestra, e attendere che dalla finestra entri aria fresca ed esca aria stagnante. Oppure possiamo cercare di cambiare aria aprendo la porta. Se però porta e finestra sono su due lati opposti, e apriamo entrambe, si può innescare un flusso d’aria molto più forte, e il ricambio sarà estremamente più rapido dell’apertura di una sola delle due. Gli effetti cumulativi e sinergici sono presenti in ogni processo di cambiamento.

Questo riguarda ad esempio la congiunzione tra iniziative politiche e iniziative militari[4], nella consapevolezza che queste ultime non sono mai sufficienti a risolvere i problemi se manca la consapevolezza di cosa vogliamo ottenere, di quale visione si voglia raggiungere.

La nuova consapevolezza raggiunta da alcuni dei vertici politici e militari è che il successo o fallimento si misurano in termini cognitivi[5] (di risultati psicologici raggiunti), e non di carri armati distrutti o nemici uccisi.

L’uccisione di un nemico poteva (forse) avere senso nel medioevo o nella guerra fredda, ma non in un pianeta che cerca di raggiungere il suo potenziale, e di farlo con il minor numero di vite umane distrutte, quando altre armi ben più potenti (la comunicazione, la negoziazione, l’educazione) possono portare ad effetti superiori. Il fine ultimo non è la morte ma la vita, il benessere di tutti.

Questo è uno dei motivi che hanno portato molti eserciti ad introdurre unità PsyOps (Psychological Operations) accanto alle unità combat tradizionali, per poter determinare effetti non più e non solo con le armi ma per raggiungere i risultati a prescindere dagli strumenti che si è abituati ad usare.

Nelle imprese, troviamo lo stesso problema: la distruzione di un concorrente può non essere più un obiettivo vero (quanti altri concorrenti possono nascere? … e, passeremo la vita a distruggere?). La sola lotta alla concorrenza rischia di far perdere di vista la necessità di innovare da dentro, di fare ricerca e sviluppo, di crescere radicalmente, nella mentalità e nelle capacità manageriali.

Questo passaggio, tuttavia, è delicato ed assolutamente in fase embrionale, sia in campo militare che nelle organizzazioni civili e nelle imprese.

Principio 25 – Effect-Based Operations

Il cambiamento positivo viene favorito dai seguenti fattori:

  • Approccio EBO (Effect-Based Operations): la centratura delle operazioni e delle energie mentali va ri-direzionata sugli effetti finali da produrre (end-state), non sugli strumenti disponibili, evitando di confondere strumenti ed effetti finali desiderati; le azioni devono essere ispirate ad una visione.
  • Cascata di effetti: la preferenza va data ad azioni che sono in grado di produrre altri effetti a cascata e correlati, scatenando una sequenza di cambiamento, rispetto ad azioni che limitano il loro effetto su un solo target.
  • Effetti cumulativi: devono essere inquadrate le stratificazioni di azioni e le sequenze di avvenimenti che sono in grado di portare il sistema verso lo stato finale da raggiungere, consapevoli del fatto che l’effetto finale in molte situazioni si ottiene solo cumulando i micro-effetti di più strategie convergenti.

Materiale Copyright, estratto dal volume di Daniele Trevisani “Regie di Cambiamento”, Franco Angeli editore, 2007.


[1] Di Paola, G. (2005), The Chief of the Italian Defence Staff Strategic Concept (Il Concetto Strategico del Capo di  Stato Maggiore della Difesa), Roma, Ministero della Difesa.

 

[2] In termini militari, riportiamo la seguente definizione sugli effetti a cascata, nella formulazione originale in inglese: Cascading Nature of Effects – Indirect effects can ripple through an enemy target system, often influencing other target systems as well. Typically this can influence nodes that are critical to multiple target systems. Most often this cascading of indirect effects flows from higher to lower levels of war. As an example, when destroying an enemy central headquarters, the effects cascade down through the enemy echelons to ultimately disrupt numerous tactical units on the battlefield. Da: USJFCOM (2007), Joint Forces Command Glossary. U.S. Joint Forces Command.

[3] Cumulative Nature of Effects – Cumulative effects result from the aggregate of many direct or indirect effects. This may occur at the same or at different levels of war as the contributing lower-order effects are achieved. However, cumulative effects typically occur at higher levels of war. As an example, increased operational-level air superiority would be the cumulative effect of destroying numerous surface-to-air-missile (SAM) sites at the tactical level. Da: USJFCOM (2007). Joint Forces Command Glossary. U.S. Joint Forces Command

[4] Vedi Alberts, David S. e Hayes, Richard E. (2003), Power to the Edge: Command and Control in the Information Age, DoD Command and Control Research Program (CCRP).

[5] Vedi ad esempio la definizione di Smith: Effects-based operations can be described as operations in the cognitive domain because that is where human beings react to stimuli, come to an understanding of a situation, and decide on a response. In Smith, Edward (2002), Effect-Based Operations. Applying Network Centric Warfare in Peace, Crisis and War,  DoD Command and Control Research Program (CCRP).

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Copyright, dal volume di Trevisani, Daniele (2007), Regie di Cambiamento. Approcci integrati alle risorse umane, allo sviluppo personale e organizzativo, e al coaching. FrancoAngeli, Milano. Diritti di riproduzione riservati. Sono possibili gli utilizzi per fini formativi, didattici e di ricerca, previa citazione dell’autore e della fonte. Altri materiali inerenti le Regie al sitowww.studiotrevisani.it/hpm1. Vedi inoltre  Scheda sintetica del volume su IBS


Verso il concetto di “Regie Terapeutiche”

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Dal volume di Trevisani, Daniele (2007), Regie di Cambiamento. Approcci integrati alle risorse umane, allo sviluppo personale e organizzativo, e al coaching. FrancoAngeli, Milano. Diritti di riproduzione riservati. Sono possibili gli utilizzi per fini formativi, didattici e di ricerca, previa citazione dell’autore e della fonte. Altri materiali inerenti le Regie al sito www.studiotrevisani.it/hpm1. Vedi inoltre  Scheda sintetica del volume su IBS

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Sul fronte terapeutico, il problema delle regie è quantomai attuale. Inutile raccontarsi bugie, credere ai proclami scritti nei documenti associativi e statutari, belli ma non reali. I terapeuti dotati di “fuoco sacro” per il loro lavoro sono sempre meno, ancora meno sono i terapeuti-ricercatori che osano sfidare le scuole di appartenenza e i testi ufficiali su cui studiano.

La psicologia e la psicoterapia sono tra i campi più afflitti dalla sindrome studiata da Kuhn, la resistenza alle rivoluzioni scientifiche che vengono “da fuori”, tale per cui le scuole professionali e di pensiero si autocelebrano, coltivano i propri eletti su basi di affiliazione, ostacolano il confronto con altre scuole, creano circoli chiusi. Questo in psicoterapia accade frequentemente. Gli psicoterapeuti in genere aderiscono a scuole, per esempio “sistemico-relazionale”, “comportamentale”, “rogersiana”, “cognitivo-comportamentale”, “psicodrammatica”, e i più rifiutano una convergenza interdisciplinare.

Aumentano i burocrati della terapia, i protocolli terapeutici pronti all’uso, da discount della guarigione, i protocolli diventano oggetti da usare senza pensare, gli strumenti psicometrici di misurazione tramite questionario divengono vangeli, mentre in realtà sono strumenti validi per “annusare” se va bene, ma non sufficienti per una regia terapeutica.

Il modello dell’intervento terapeutico, nella psicoterapia e nella terapia medica è ampiamente medico-centrico, e – nonostante gli innumerevoli sforzi (vedi i lavori di Carl Rogers per la terapia centrata sul cliente) coinvolge poco il cliente sulla metodologia, e persino sulle responsabilità.

Mentre nessuno può togliere al medico la decisione ultima (in qualità di  esperto) su quale scelta difficile fare, può invece evolvere enormemente il grado di condivisione del metodo, delle opzioni di intervento che viene applicato con il paziente.

Ad esempio, se vogliamo trattare il problema del dimagrimento di un obeso, dobbiamo sicuramente essere consapevoli che possiamo agire (come gamma di opzioni) sul piano medico, psicologico, comportamentale, e farmaceutico.

Ma – è questo il punto – il cliente deve fare delle scelte sul grado di rapidità del dimagrimento desiderato, sul tipo di restrizione e rinunce alimentari, o piuttosto sul fatto di non volere fare alcuna rinuncia e farsi impiantare un palloncino nello stomaco per togliere automaticamente il senso di fame.

Il risultato finale (dimagrire) può essere ottenuto con una mole tanto vasta di opzioni che risulta limitato pensare di agire con una sola strada terapeutica. È molto più ragionevole aumentare la consapevolezza del cliente sulle diverse opzioni, creare una convergenza di metodi, e aiutarlo a diventare protagonista della scelta tra le diverse opzioni.

E questo, beninteso, non significa diventare “buonisti”. Il modello delle regie non è in sè per nulla “buonista”, è assertivo, poiché ad un certo punto obbliga il consulente a divenire Regista, a scegliere un percorso, a prendersi delle responsabilità. Tuttavia, gli spazi per condividere il modello con il cliente, per farlo partecipe del processo, per assegnargli responsabilità e aumentare la compliance (collaborazione con il medico) sono enormi.

Il cambiamento volontario non è un processo che un soggetto attua e l’altro subisce (come molti pensano), ma un percorso nel quale i due soggetti devono collaborare, lavorare assieme.

Anche il cliente ha forti responsabilità nel percorso di cambiamento. Tuttavia, il cliente nel rapporto terapeutico ha la tendenza a “attendere istruzioni”. Nel “non detto” del rapporto terapeutico si crea l’attesa del cliente  di dover rimanere passivo e attendere ricette. Sarà difficile che sia il cliente stesso a “fare la prima mossa” e cercare di diventare co-protagonista nel processo e parteciparvi più attivamente. Il rischio di chi lo fa è di invadere il territorio psicologico del medico-terapeuta e di essere rigettato.

Esiste poi il problema del metodo. Agire con una regia in campo terapeutico significa utilizzare una serie di strumenti molto ampia, e coordinarli. Agire senza regia significa invece prendere appuntamenti con un terapeuta o medico, il quale deciderà di volta in volta cosa fare, o usare una sola dimensione della terapia, perdendo opportunità.

Esiste una forte presa di responsabilità nel terapeuta che decide di approntare una regia di intervento: pianificare i diversi strumenti (tools), e testare i suoi progressi sul campo[1].

La differenza tra un intervento terapeutico con regia o senza si coglie:

  1. dalla consapevolezza che ha il cliente di quale fase del percorso sta attraversando (senso della posizione);
  2. dal senso stesso del percorso che ha il cliente (senso del tragitto);
  3. dal fatto che il terapeuta abbia o meno approntato un percorso o agisca alla giornata (grado di organizzazione del percorso);
  4. dal fatto che vengano presi appuntamenti di volta in volta o si preveda un ciclo terapeutico basato su modello (auspicabile);
  5. dalla molteplicità degli strumenti di intervento che il terapeuta è in grado di mettere in atto (grado di varietà): la varietà dei metodi di cui dispone, la quantità di strumenti che si trovano nel toolbox o “borsa degli attrezzi” del terapeuta.

Un esempio pratico in campo psicologico: agire sull’ansia. Il terapeuta è in grado di scavare, far emergere la trasmissione transgenerazionale del disagio psichico, per capire se ci sono “assorbimenti” di modelli psicologici dai genitori (approccio psicodinamico e freudiano)? Ha il repertorio per fare questo? È in grado di attivare un vero clima di accoglienza incondizionata, di ascolto empatico, di seguire il flusso del pensiero del cliente senza forzarlo troppo presto, se e quando necessario (approccio rogersiano[2])? Conosce queste tecniche? Il terapeuta è poi in grado di dare “compiti per casa” al soggetto, per velocizzare il suo processo e favorirne l’autonomia (approccio cognitivo-comportamentale)?

È in grado di andare persino contro la sua scuola di pensiero di provenienza, e i protocolli appresi, se reputa utile farlo?

È in grado di lavorare sullo stile di respirazione del cliente, sul rilassamento, sulle tecniche di matrice corporea e bioenergetica, può insegnarli a fare training autogeno o altre tecniche? Conosce queste tecniche? O la sua scuola glielo impedisce? È in grado di “far provare” nuovi comportamenti, prima che il cliente li provi sul campo (tecniche teatrali)? Sa creare role-playing e psicodrammi? Sa lavorare con questi strumenti? O è chiuso nella sua “verità” monodisciplinare?

Ci fermiamo qui, ma potremmo proseguire con altre addizioni di strumenti, dall’Analisi Transazionale alla supplementazione alimentare mirata, per poi rituffarci nella Analisi della Conversazione (Conversation Analysis) e nella semiotica, e vedere che contributi possono portare per risolvere il problema del cliente.

Il meta-problema è la quantità di strumenti che il terapeuta sa mettere in atto (repertorio registico) e la sua capacità di coordinarli alla luce della situazione del cliente, facendoli diventare un flusso registico.

È difficile trovare terapeuti aperti alla multidisciplinarietà, esperti in più metodi, o qualcuno che non si chiuda in una sola visione del problema, o non si faccia limitare dalla sua scuola di provenienza – qualcuno in grado di predisporre un intervento multi-livello, concreto e allo stesso tempo ben fondato scientificamente[3].

Attorno al tema delle regie si ripresenta in tutta la sua forza il bisogno di un approccio olistico-pragmatico: Olistico: aperto al tutto, e Pragmatico, dagli effetti tangibili, concreto, pratico. Una preoccupazione che sta alla base del metodo ALM sin dal primo volume.


[1] Anche per gli interventi condotti secondo la scuola psicoterapeutica rogersiana, tipicamente non direttiva, è possibile predisporre delle regie estremamente sofisticate andando a stimolare aree di esplorazione psicologica tramite domande mirate, o integrando la terapia rogersiana con altri interventi comportamentali o con metodi di altre scuole, o con interventi di tipo farmacologico, o persino alimentare.

 

[2] Per approfondire i principi dell’approccio di Carl Rogers, vedi testi citati in bibliografia.

[3] Mi è capitato personalmente di chiedere ad una psicologa di un centro per l’handicap – partecipante ad un corso sulle performance organizzative – se siano state utilizzate tecniche di rilassamento e bioenergetica nei programmi per il recupero dell’handicap. La risposta: “no perché sono una terapeuta sistemico-relazionale” evidenzia una centratura sul T-mondo (il mondo del terapeuta) e non sul C-Mondo (il mondo del Cliente e i suoi bisogni). La risposta corretta e meno ipocrita sarebbe stata “No, non li conosco, non so quando e come usarli all’interno di un intervento, la mia scuola non li prevede”.

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Dal volume di Trevisani, Daniele (2007), Regie di Cambiamento. Approcci integrati alle risorse umane, allo sviluppo personale e organizzativo, e al coaching. FrancoAngeli, Milano. Diritti di riproduzione riservati. Sono possibili gli utilizzi per fini formativi, didattici e di ricerca, previa citazione dell’autore e della fonte. Altri materiali inerenti le Regie al sito www.studiotrevisani.it/hpm1


Formazione interculturale aziendale, efficacia interculturale, comunicazione interculturale

Formazione interculturale, comunicazione interculturale aziendale e management cross-culturale

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La comunicazione interculturale aziendale riguarda

  • la competenza nel capire gli interlocutori di culture diverse (empatia interculturale strategica),
  • essere efficaci e persuasivi in contesti interculturali (persuasione interculturale, es: vendite all’estero),
  • la capacità di condurre negoziazioni internazionali (negoziazione interculturale),
  • la capacità di avviare e condurre gruppi di lavoro su progetti che coinvolgono persone di culture diverse (team interculturali e leadership interculturale).

Capire la cultura altrui è un fattore critico di successo nei mercati globali, ma anche all’interno della stessa nazione. La cultura determina infatti:

  • la reazione ai prodotti e alle proposte commerciali, le dinamiche di persuasione interculturale
  • la reazione delle persone verso gli atteggiamenti personali e comportamenti che osserva, filtrati da schemi culturali e mentali (frame mentali e frame culturali)

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Per dare supporto e contributo concreto alla formazione interculturale, i problemi di comunicazione interculturale e negoziazione interculturale sono analizzati in una specifica pubblicazione curata dallo Studio Trevisani, un contributo primario di ricerca per le imprese e i managers, con modelli originali provenienti dalle ricerche condotte dall’autore.

 

Pubblicazione tematica di comunicazione interculturale e negoziazione interculturale curata da Studio Trevisani

 

Volume "Negoziazione Interculturale"

  • Trevisani, Daniele (2005). Negoziazione Interculturale: Comunicazione oltre le barriere culturali. Dalle relazioni interne sino alle trattative internazionali”. Franco Angeli editore, Milano. 2005. (172 pag.)

L’esigenza di una formazione interculturale riguarda ogni professionista e ogni manager

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Senza consapevolezza culturale, è impossibile essere efficaci in un mercato internazionale ove le possibilità di contatto interculturale sono, in un giorno, superiori a quelle che un nostro antenato poteva avere in una intera vita.

La competenza interculturale e la formazione interculturale permettono di capire meglio:

  • le radici dei comportamenti, delle decisioni, di ciò che osserviamo negli altri e in noi stessi
  • la reazione ai messaggi, alle attività di persuasione, ai colori, ai linguaggi, alle forme, e agli stili comunicativi
  • gli stili di comunicazione interpersonale, le distanze gerarchiche, le stratificazioni sociali
  • le tecniche di negoziazione e la capacità di essere culturalmente efficaci oppure essere rifiutati culturalmente
  • le modalità di inserimento, accettazione e adattamento delle risorse umane attive all’estero (es: area managers, resident managers, filiali estere, joint ventures, stabilimenti produttivi), il successo nell’insediamento delle aziende e delle persone che vi operano
  • le tecniche di negoziazione e la capacità di essere culturalmente efficaci oppure essere rifiutati culturalmente
  • le modalità di inserimento nelle organizzazioni, i percorsi di carriera, la possibilità di avere successo e i modi con cui si può essere efficaci

Altre informazioni ai link seguenti:

Energie Personali

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Le energie personali sono un concetto che tocchiamo ogni giorno. E non solo. Sono uno dei temi centrali di chi si occupa di psicologia e di formazione, ma anche di pedagogia o di management.
Guardate negli occhi le persone mentre sono in coda ad un semaforo, guardate le facce di chi entra nelle aziende e negli uffici. Non troverete grandi differenze.
Far crescere le energie personali richiede un programma e non avviene per caso. E’ di questo che mi occupo, ma mi sia consentita una riflessione:
  • Una persona che si trovi a basso livello di energie entrerà presto in crisi in termini esistenziali e psicologici. Persino una intera nazione può essere (ed è il caso dell’Italia) a basso livello di energia: le code per vincere lotterie, per vincere alle scommesse, i toto-qualsiasicosa, tutto pur di sfuggire ad una strada che richieda di guardarsi dentro e cercare una via alternativa attraverso la propria formazione personale.
  • Siamo uno dei paesi occidentali in cui si conoscono meno le lingue straniere. Manca la voglia di studiare, i Leonardo, i Machiavelli, fuggono all’estero, se possono, o rimangono a fare l’elemosina presso i baronati universitari o i piccoli e grandi maledetti potentati locali.
  • In molte zone (non solo rurali) il fatto di “andare dallo psicologo” diventa sinonimo (sbagliato) di malattia mentale, mentre dovrebbe essere una normalissima forma di manutenzione (prima) e crescita (poi) del proprio livello di energia esistenziale, un percorso di ricerca di uno stato di miglioramento personale costante, un modo per crescere come persone. Sdoganare la psicologia dal fronte della percezione ristretta alla terapia clinica (senza per questo rinnegarla in alcun modo) significa dare alla psicologia e alla formazione uno spazio sociale nuovo.
In altri paesi, counseling e psicologia trovano ben altre attenzioni e non sono assolutamente relegate, nella percezione pubblica, al fronte clinico. Fosse per me, poi, metterei almeno due anni di terapia obbligatoria per chiunque intraprende la strada dell’insegnante, affinchè si possa essere certi che le osmosi psicologiche (inevitabili) che vengono trasmesse ai bambini e ragazzi siano le più positive possibili, anzichè veleni mentali come spesso accade.
Entriamo sul piano tecnico ed osserviamo alcuni meccanismi:
  • le diffusioni energetiche: le immissioni di energia in un’area che trova implicazioni positive (fa bene) anche alle altre aree;
  • i drenaggi energetici: i cali o blocchi di energia in un’area che danneggiano anche le altre aree.

Le implicazioni per lo sviluppo personale sono numerose, ma soprattutto:

– è possibile realizzare una strategia di immissione selettiva di energie in un’area, per poi utilizzarla come perno per lo sviluppo di altre aree. Ad esempio, creare grounding bioenergetico, il che significa lavorare principalmente sulle energie del corpo per poi poter “fare leva” su un corpo energeticamente carico, su un fisico forte, pronto ad assumersi impegni psicologicamente rilevanti, anche gravosi, goal e obiettivi sfidanti;

– è possibile realizzare una strategia di immissione multipla di energie ricercando una crescita su più livelli e stadi. Ad esempio, lavorare sistematicamente e contemporaneamente su tutte le aree del modello HPM.

In generale, un lavoro su un’area è possibile solo se i livelli energetici di base dell’area toccata sono a livello sufficiente per supportare carichi superiori. Se non vi sono condizioni minime, occorre trovare strade alternative.

Ad esempio, in campo manageriale è completamente inutile realizzare un intervento dalle grandi ambizioni  (job enrichment, job enlargement, role-modeling, e altri), attaccando lo strato delle macro-competenze, se le micro-competenze di supporto sono insufficienti. Se una persona non sa nemmeno gestire una riunione di un piccolo gruppo di lavoro, inutile passare a temi ancora più complessi che poggiano su competenze che ancora non ci sono.

Altrettanto inutile è riempire di competenze (skills) un manager se mancano le energie motivazionali (volontà) necessarie a mettersi in gioco.

Inutile studiare nuovi progetti creativi se l’intero team è in stato di demotivazione cronica o affaticamento. Una persona disabilitata nelle energie mentali non va da nessuna parte, non porta avanti nemmeno se stessa, e tantomeno il progetto più ambizioso che qualsiasi mente possa partorire.

In generale, in mancanza di energie, il “nuovo” non viene affrontato. Sem­plicemente non ci sono le forze per affrontare il cambiamento.

L’area psicoenergetica assieme a quella bioenergetica sono quindi ancoraggi forti di lavoro per un coaching e una formazione seria e analitica.

Saltarli piè pari e passare subito alle competenze applicative è inutile. Così come costruire progetti che richiedono presenza di energie che non ci sono.

Gli effetti positivi delle immissioni di energie sui li­vel­li di performance e di aspirazione

In termini di psicologia positiva notiamo che l’immissione di energia in una qualsiasi cella può apportare maggiori energie al sistema, e quindi riflettiamo sul fatto che esistono molteplici modi e strade, enormi opportunità, per poter accrescere le energie personali e fare coaching e formazione di qualità.

La liberazione da una catena, o “togliere un sasso dal proprio zaino”, può aprire le strade della volontà per una scalata ulteriore. In generale, le immissioni di energie in un certo stadio aumentano il livello di fiducia in se stessi, autostima e percezione di autoefficacia. Aumenta il senso di libertà.

Le osmosi energetiche portano ad una maggiore propensione dell’indi­viduo verso l’assunzione di rischio positivo, di accettazione di sfide che prima il soggetto riteneva impensabili o troppo pericolose. Per rischio positivo intendiamo azioni che non siano minate da un livello di aspirazione malato, superumano e maniacale, condotte col cuore ma anche con la ragione.

I livelli di aspirazione sono decisamente correlati alle energie circolanti.

Gli studi scientifici di Bresson individuano il livello di aspirazione come “il risultato che un soggetto si dà per un fine da raggiungere, in un compito che ammette diversi gradi di realizzazione”[1].

A bassi livelli di energie personali corrispondono bassi livelli di aspirazione. Le energie si abbassano drasticamente, e i compiti o goal che l’individuo sente di poter gestire si richiudono sempre più entro una nicchia, sino ad implodere, se la tendenza non viene invertita.

Quando mancano le energie, ogni rischio assume sembianze mostruose, persino lo scendere in strada, o l’incontrare altre persone. Al contrario, forti osmosi energetiche positive (contaminazioni positive tra energie fisiche, mentali, competenze, volontà) conducono alla voglia e consapevolezza di poter accettare sfide e rischi superiori, persino lanciarsi con un paracadute, o condurre una operazione chirurgia al cervello (per un medico), o accettare la sfida di avere figli in un mondo difficile (per ogni genitore), o iniziare a pensare di potersi laureare, per qualcuno che aveva rinunciato a questa idea non sentendosi all’altezza, e tante altre occasioni di crescita.

Per questo motivo, nel metodo HPM, quando i canali per introdurre energie sono bloccati da un certo lato (poniamo i valori, o le competenze), è possibile sia teoricamente che concretamente aggirare questo ostacolo. Potremo partire dalla base delle energie fisiche, o da altri canali aperti o apribili, per incrementare le energie totali del sistema. È un lavoro sperimentato e funzionante nella pratica, di cui troviamo crescente supporto teorico.

Avviare il lavoro, e sbloccare i meccanismi, è più importante che fare un lavoro ingegneristicamente perfetto ma – nei fatti – solo teorico, vuoto.


[1] Bresson, F. (1965), Rischio e personalità. Il livello di aspirazione, in Trattato di Psicologia Sperimentale, a cura di Paul Fraisse e Jean Piaget (1978), Einaudi, Torino, p. 458. Edizione originale: Traité de Psychologie Expérimentale. VIII. Langage, communication et décision, 1965, Presses Universitaires de France, Paris.

Estratto sintetico dal volume: Trevisani, Daniele (2009), “Il potenziale umano. Metodi e tecniche di coaching e training per lo sviluppo delle performance”, 240 p., editore Franco Angeli, Milano

Scheda completa del volume su IBS (Internet Bookshop Italia) al link:

http://www.ibs.it/code/9788846498625/trevisani-daniele/potenziale-umano-metodi-e.html?shop=4636

© dott. Daniele Trevisani, www.danieletrevisani.com –estratto dal cap. 2


Psicologia e Potenziale Umano: uscire dal sequestro professionale, verso un approccio scientifico e multidisciplinare

Psicologia, Psicoterapia, Formazione: uscire dal “sequestro professionale” – il bisogno di dialogo interdisciplinare, la contaminazione positiva, la convergenza verso un approccio multidisciplinare

Esiste una componente formativa in ogni processo terapeutico, e una componente terapeutica in ogni processo formativo. Ciò che conta è che al centro della nostra attenzione vi sia una pulsione a generare crescita, evoluzione, progressione, da qualsiasi livello e condizione si parta.

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Una convinzione forte: chi si occupa di Psicologia, Psicoterapia, Formazione, Counseling, Sviluppo Organizzativo, e ogni altro tipo di relazione professionale d’aiuto, deve possedere un fondamento scientifico. La quantità di variabili e la loro complessità non permettono di lasciare spazio al semplice senso comune. Su questo (almeno per chi ha dedicato parte della propria vita alla Psicologia come area di studio), non esiste dubbio.

Un processo formativo vero non si limita al semplice addestramento, ma entra nel cuore della persona, nella sua identità, nel modo di essere, nel modo di pensare. Ma la buona volontà non basta. Il desiderio di aiutare (sia esso sul fronte terapeutico, nella consulenza, o nella formazione aziendale) richiede metodo, non improvvisazione. Richiede scienza, non solo desideri.

Il problema immediatamente successivo nasce dal fatto che ogni “scuola di riferimento” in campo psicologico, possiede una propria vocazione, autori di riferimento, pubblicazioni cardine, e  una “visione del mondo” (Weltanschauung), che si riverbera sul modo di condurre il processo formativo o l’approccio terapeutico, a volte con una tendenza al “sequestro professionale“.

Con questo termine intendo la (possibile, ma non automatica) tendenza totalizzante e “assorbente” – la tendenza all’appropriazione che un approccio psicologico tende ad avere verso il professionista. L’appartenenza ad una Scuola di riferimento offre tra l’altro sicurezza, conforto, possibilità di condivisione, metodi, ma – nei casi peggiori – ha un costo: la chiusura verso altre scuole e altri approcci, la limitazione della gamma di strumenti utilizzabili, la chiusura mentale e peggio ancora un autoriduzionismo professionale.

Al contrario, è sicuramente auspicabile che ogni professionista si preoccupi di ampliare la propria gamma di strumenti utilizzabili, la propria “cassetta degli attrezzi”, per potersi spingere oltre la propria scuola di provenienza, senza per questo rinnegare i propri studi o i propri Maestri.

Operando spesso in territori di frontiera tra psicologia e formazione, e collaborando quotidianamente con psicologi, formatori, manager e progettisti, ho notato quanto urgente sia il bisogno di allargare la prospettiva sul Potenziale Umano in ottica interdisciplinare. Ne è emersa una grande mole di ricerca (durata otre 20 anni) ora pubblicata in un volume specifico, “Il Potenziale Umano”, edito da Franco Angeli (è la prima pubblicazione di una serie di contributi in progress). Nel volume si individuano 6 possibili aree di sviluppo dalle quali partire, per poter poi realizzare programmi (terapeutici, o formativi) che possano combinare e far convergere due o più aree in un progetto complessivo di crescita, sia essa centrata sull’individuo o su un gruppo.

L’alchimia necessaria, da parte del professionista, consiste proprio nel costruire un piano di lavoro che non trascuri alcune componenti essenziali.

Le matrici di obiettivi individuate in ottica interdisciplinare sono (allo stato attuale delle ricerche) le seguenti:

1 – sviluppo bioenergetico: si prefigge di accrescere le energie del corpo, le forze fisiche, lo stato di salute, forze su cui poggiano tutti gli altri sistemi; vengono individuate sia azioni globali (es.: migliorare lo stato di forma fisico) che azioni localizzate su specifici micro-obiettivi, es.: aumentare la resistenza aerobica, migliorare la postura, rivedere l’alimentazione. Gli interventi si dividono in azioni (1) di riparazione (terapeutiche) o (2) di potenziamento; esse riguardano (a) economie dei distretti locali del corpo e (b) azioni centrate sull’economia corporea complessiva; (non dobbiamo mai dimentare che ogni processo mentale ha componenti biologiche, e – per chi si occupa di formazione – che ogni persona al lavoro attinge continuamente alle proprie energie biologiche, dal cui livello ne è fortemente condizionata);

2 – sviluppo psicoenergetico: a seconda del tipo di approccio (terapeutico o formativo), si occupa di individuare aree e metodi per la crescita delle energie psichiche, motivazione, volontà, spinta interiore ad agire e a progredire; rimozione di blocchi psicologici e stili di pensiero che impediscono di raggiungere il potenziale, individuazione delle auto-limitazioni, irrigidimenti cognitivi, credenze culturali autolimitanti o dannose per sé (e per il team, in campo di sviluppo organizzativo); richiede un forte lavoro di emersione della consapevolezza dei potenziali, riduzione dello stress negativo, incremento di autostima, lucidità decisionale, chiarezza delle proprie risorse interiori; il lavoro è sia sull’economia cognitiva generale (es.: ridurre l’ansia generalizzata, aumentare l’autoefficacia generale) che su economie di specifiche aree psicologiche in azione, es.: lavorare sull’ansia in un public speaking, o l’ansia pre-gara, o la visualizzazione mentale dell’evento;

3 – sviluppo delle micro-competenze: riguarda sia il fronte terapeutico che quello professionale. E’ è un lavoro specifico, inteso come innestato all’interno di una matrice di obiettivi legati al ruolo che la persona desidera interpretare nella vita o nella professione. In campo terapeutico, intende fornire alle persone micro-abilità quotidiane che ne permettono una progressiva variazione dello stile di vita e dello stile di pensiero (competenze cognitive, relazionali, comunicazionali). In campo professionale, richiede di individuare fattori che creano differenza tra un’esecuzione (1) scarsa, (2) normale o media, (3) un’esecuzione di alto livello (il nostro obiettivo finale). Gli esempi possono essere tanti. Es.: localizzare i dettagli che differenziano una vendita da principiante vs. una vendita di alto livello (dove sono esattamente le differenze?); capire le “distintività” (azioni, dettagli, micro-atteggiamenti, micro-comportamenti) che mette in campo un combattente professionista rispetto ad un dilettante, nella preparazione, e durante un incontro. O la differenza che c’è tra un rigore tirato bene e un rigore tirato male, o tra una riformulazione corretta e una sbagliata (per un terapeuta), o per un cuoco, il tempo ottimale di cottura e uno leggermente peggiore. La ricerca di dettagli delle performance può essere applicata in ogni campo. Possiamo localizzare le micro-competenze di un direttore, di un venditore, di un atleta, di un medico, di uno psicologo, di un negoziatore, di un educatore. Il lavoro sulle micro-competenze richiede sia una fase di riconoscimento (detection aumentata, stimolo della capacità di percezione e localizzazione) che una fase di formazione (lavorare sulle variabili prima isolate); produce inoltre un forte incremento della sensibilità ai dettagli, dell’attenzione, della capacità di trovare “cose concrete su cui lavorare”;

4 – sviluppo delle macro-competenze: le macro-competenze sono la connessione tra (1) il repertorio globale di abilità della persona e (2) il ruolo che quella persona vuole ricoprire. Le due sfere possono di fatto collimare perfettamente, o invece essere scollegate o ridotte (il che mette la persona in sicura difficoltà). Possono anche essere sovrabbondanti e anticipatorie dei futuri cambiamenti (creando agio e una condizione di maggiore elasticità e sicurezza). Prevedono l’esame del ruolo, delle aspirazioni, delle traiettorie, la rilevazione di gaps (lacune) e incoerenze professionali, analisi di bisogni di revisione o cambiamento significativo del proprio lavoro o della posizione professionale, dei ruoli giocati in campo; richiede valutazione e anticipazione dei mutamenti organizzativi cui dare risposta; sviluppo di una coerenza tra proprio profilo professionale e propri obiettivi di vita o obiettivi aziendali da raggiungere, tra le proprie aspirazioni e le opzioni reali dell’azienda e del team, ricerca di spazi nuovi di espressione;

5 – sviluppo della vision e del piano morale: localizzazione degli ancoraggi morali forti, dare spessore morale e senso alla vita e all’azione, costruzione e revisione di un piano di lungo periodo, costruire una linea di tendenza ideale, sognare e idealizzare una traiettoria di crescita positiva; coltivare saggezza nelle scelte, cercare un ancoraggio a valori guida, revisione della mappa di credenze morali e consolidamento di una filosofia di vita positiva. Comprende la ricerca di nuovi stimoli all’auto­realiz­za­zio­ne, connessione a valori umani positivi e forti, senso pieno del fare e dell’esistenza, ricerca di un senso profondo dei progetti, trovare motivi e direzioni per cui vale la pena impegnarsi; e persino nuove aree di obiettivi esistenziali o/o professionali che diano sapore e senso alla vita, idee e pensieri ispirativi sui quali la persona non aveva ancora riflettuto;

6 – sviluppo di mete, traguardi, goal e progettualità necessaria: definizione di obiettivi precisi da raggiungere, misurabili, tempificabili; progettualità su risultati concretamente raggiungibili; sviluppo della capacità di gestio­ne di tempi (time management) e progetti (project management), gestione efficace delle proprie risorse, capacità di concretizzazione, di realiz­zazione, abilità nel calare nella realtà un concetto o un obiettivo, trasformare una visione d’insieme in to-do-list (lista delle cose da fare); capacità di tradurre un ideale o un proprio valore in un piano di azione.

Un progetto può attingere a più piani, e spaziare dal corpo alla mente, dal ruolo al piano morale, sino ad arrivare alla crescita della progettualità. La distinzione tra piano terapeutico e formativo, tra “riparazione” e “costruzione”, se da un lato è stata utile (e lo rimane per molti casi), verrà probabilmente superata da una concezione psicologica di progressione continua del potenziale personale, da qualsiasi punto di partenza si intenda partire. Una forte contaminazione interdisciplinare tra tutte le aree che si occupano del potenziale delle persone, a questo punto, diventa davvero una nuova sfida per tutti.

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Estratto sintetico dal volume: Trevisani, Daniele (2009), “Il potenziale umano. Metodi e tecniche di coaching e training per lo sviluppo delle performance”, 240 p., editore Franco Angeli, Milano

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© dott. Daniele Trevisani, www.danieletrevisani.com –estratto dal cap. 2