Potenziare la corteccia prefrontale sinistra

© Articolo a cura di: dott. Daniele Trevisani, Studio Trevisani Formazione, Consulenza e Coaching.

Testo estratto dal volume di Daniele Trevisani “Il Potenziale Umano: metodi e tecniche di coaching e training”, Franco Angeli editore, Milano.

Le neuroscienze insegnano che il cervello risponde agli stimoli con meccanismi molto simili a quelli dei muscoli: le aree usate frequentemente lavorano, si rafforzano, si “irrobustiscono”, si potenziano; le aree inutilizzate diminuiscono di tono e volume sino a divenire quasi inesistenti (chi ha avuto lunghe ingessature si è potuto rendere conto direttamente di quanto il non-utilizzo produca riduzione del volume della zona ingessata).

Lo stesso meccanismo accade nella mente. Una sequenza di momenti positivi e sensation windows positive (SW) allena e tiene attiva la corteccia prefrontale sinistra, la cui attività si correla a emozioni positive (gioia, capacità di cogliere le positività, sensazioni, energia, coscienza)1. Al contrario, una sequenza di SW negative allena la corteccia prefrontale destra, maggiormente specializzata nel cogliere emozioni negative.

Addirittura, i neuro-scienziati hanno dimostrato un effetto sull’induzione di percezione e ricordo positivo, tramite stimolazioni magnetiche dirette (repetitive transcranial magnetic stimulation) della zona orbitofrontale sinistra2.

In termini di coaching formativo, non volendo confondere i ruoli (le stimolazioni tramite attrezzature biomedicali sono sfera medica), preferiamo indurre una uguale e maggiore capacità (persino più duratura) tramite apprendimento esperienziale, per vivere i goal e obiettivi positivi, generando stimoli allenanti ed esistenziali adeguati. Questi effetti non sono banali.

Va da se che se alleniamo molto un braccio e l’altro no, avremmo degli scompensi. Così come se avessimo una gamba potente e muscolosa e un’al­tra de­bole e avvizzita, la nostra camminata sarebbe zoppicante, e l’equilibrio dell’or­ganismo si farebbe deficitario. Ogni disequilibrio fisico porta a ripercussioni negative su tutto l’apparato scheletrico e muscolare, ed ogni disequilibrio mentale a malfunzionamento del pensiero, malessere e sofferenza psichica.

Il funzionamento ottimale dipende perciò anche dalla capacità di creare equilibri e simmetrie, e un potenziamento “stupido”, che non tenga conto degli equilibri, ma cerchi solo “potenza”, è dannoso, distruttivo.

Lo stesso accade nella mente. Dobbiamo imparare ad allenare e stimolare la corteccia prefrontale sinistra e in generale a vivere le emozioni positive non solo in seguito ad eventi enormi (lotterie, vincite) ma anche e soprattutto in attività che altrimenti non coglieremmo. Dobbiamo programmare spazi e tempi in cui farlo. È questione di sopravvivenza.

Disintossicare la mente non è quindi più solo arte ma anche scienza.

È importante quindi non solo generare spazi e tempi dedicati, ma anche cogliere sensazioni positive (sensation windows), esperienze che sfuggono anche se limitate o non eterne, e il dono che ne deriva.

La vita ci offre continuamente doni, anche se limitati.

Per dono limitato si intende la sensazione che anche un semplice gesto o atto può portare per pochi istanti, senza pretendere che esso duri per sempre.

Ed ancora, apprendere a cogliere energie da una capsula spaziotemporale (il dono di un frame), fa parte di nuove abilità da coltivare in sé e negli altri.

1 Vedi, tra i contributi di ricerca sul tema: Davidson, R. J. (1998), Understanding Positive and Negative Emotion, in LC/NIMH conference proceedings “Discovering Our Selves: The Science of Emotion”, May 5-6, 1998, Decade of The Brain Series, Library of Congress, Washington DC.

2 Schutter, D. J., van Honk, J. (2006), Increased positive emotional memory after repetitive transcranial magnetic stimulation over the orbitofrontal cortex, Journal of Psychiatry and Neuroscience, Mar. 31 (2), pp. 101-104 (Department of Psychonomics, Affective Neuroscience Section, Helmholtz Research Institute, Utrecht University, Utrecht, NL).

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Attivare e potenziare le energie mentali: lo stato psi­co­e­nergetico e la preparazione psicologica

© Articolo a cura di: dott. Daniele Trevisani, Studio Trevisani Formazione, Consulenza e Coaching.

Testo estratto dal volume di Daniele Trevisani “Il Potenziale Umano: metodi e tecniche di coaching e training”, Franco Angeli editore, Milano.

Jules: Per me è troppo stare insieme a te!

Hilary: Fammi capire… stare con me è troppo cosa?

È… troppo divertente? O troppo intenso? Troppo bello?

Jules: Richiede troppa energia.

Dal film: A time for dancing, di Peter Gilbert

Raggiungere il proprio potenziale non è solo materia muscolare o di sviluppo fisico. Anzi, vi sono attività nelle quali il supporto biologico e fisico è soprattutto latente, agisce in background, e predomina ampiamente la presenza di energia mentale e motivazionale.

Tra queste, le professioni prettamente intellettuali, o la prestazione didattica-educativa, o ancora le micro-prestazioni quali gestire una riunione tra manager, o l’atto dell’ascoltare un cliente, un collega, un familiare. In tutte queste situazioni, e in molte altre, le energie mentali sono fondamentali.

Anche nelle prestazioni più prettamente fisiche, come correre, lottare, combattere, o saltare, il grado di motivazione e le energie mentali addizionali possono fare la differenza tra una prestazione standard e una prestazione eccellente. La voglia di fare è più potente di qualsiasi integratore.

Le energie mentali si attivano ampiamente sul fronte delle relazioni interpersonali. Anche stare con una persona richiede energie. Nei rapporti umani vi sono storie che logorano e consumano energie, altre che ne danno, altri ancora che innescano forti flussi di scambio reciproco, e numerose sfumature intermedie. Servono energie anche per incontrare le persone.

In ogni attività umana la componente fisica rimane importante ma comunque il supporto biologico non è condizione sufficiente ad esprimere performance: è una condizione necessaria, ma non l’unica parte della ricetta.

Le attivazioni fisiche sono diverse, impegnando maggiormente il sistema cognitivo e relazionale nell’attività manageriale, e il sistema muscolare e respiratorio nel caso di azioni ad alta fisicità. Tuttavia, nessun manager può permettersi di non respirare, e nessun pugile può permettersi di non pensare. Sono dati di fatto. Corpo e mente funzionano bene solo in sinergia.

Mentre il supporto bioenergetico è decisamente variabile, il supporto motivazionale deve essere presente in ogni situazione nella quale si richieda sforzo, impegno, dedizione, presenza mentale.

Il senso della psicoenergetica è quindi orientato a cogliere la componente non fisica della performance e del wellness.

La prestazione umana è ampiamente condizionata dal fatto di sentirsi “su di morale” o “giù di morale”, pieni di “voglia di fare” oppure svuotati, “carichi” o “scarichi”. Una scarsa condizione psicoenergetica si traduce in senso di stanchezza psicologica, apatia, perdita di vitalità, incapacità di reagire o di fare.

Esistono certamente collegamenti importanti tra energie biologiche e energie mentali. Ad esempio, la condizione di insufficienza di zuccheri e di ossigeno nel sangue conduce ad una diminuzione della capacità di ragionamento. Il nutrimento biologico della mente è indispensabile per farla funzionare. Ma se la benzina è di scarsa qualità, il motore andrà male.

I tentativi goffi di accrescimento delle energie mentali agendo esclusivamente tramite la via biochimica, dimenticando il lato esistenziale, sono distruttivi. Gli interventi chimici vanno distinti da quelli esistenziali.

Curare l’infelicità con le medicine, o generare motivazione con una pillola non sono lo scopo di una via umanistica per le performance e il potenziale.

Ridurre tutto a chimica e fisica (riduzionismo psicofisiologico), impedisce di ragionare seriamente sul piano spirituale della vita. Negare un livello di valutazione esistenziale e filosofica dell’essere umano impoverisce l’analisi.

I rimedi farmaceutici finalizzati a risolvere il fattore “energie mentali” su un piano puramente biologico (sostanze psicoattive e psicofarmaci) sono da tempo considerati approcci insufficienti. Sono utili a spegnere incendi, non a creare felicità vera, lavorano sul sintomo e non sulla radice esistenziale di un disagio o della motivazione. E nemmeno possono durare a lungo.

Come evidenzia Jung, è molto riduttivo accettare una concezione materialistica…

secondo la quale la psiche sarebbe il prodotto delle secrezioni del cervello, come la bile lo è del fegato. Una psicologia che concepisca ciò che è psichico come un epifenomeno farebbe meglio a chiamarsi “fisiologia cerebrale” e ad accontentarsi dei modestissimi risultati che offre una psicofisiologia del genere1.

Un’eccellente condizione psicoenergetica vede la persona lucida, “su di morale”, carica di energia e – nel campo professionale – creativa, concentrata, produttiva, più saggia, meno vittima degli umori, e, nel campo fisico, desiderosa di esprimere tutto il suo corpo nell’azione, vogliosa di fare, di sudare, di correre, saltare, lottare, muoversi, e di amare.

Le stesse attività che possono dare gioia (es.: correre, nuotare, giocare, fare una vacanza, stare con amici) diventano fonte di dolore se affrontate con livelli di energie mentali basse e in condizioni di umore negativo.

Sviluppare energie mentali elevate è un nostro obiettivo, ancora più sfidante rispetto al piano di lavoro delle energie fisiche, poiché lo stato di avanzamento delle conoscenze scientifiche sul funzionamento della mente è meno evoluto rispetto a quello sul corpo.

Il lavoro sulle energie mentali può essere avviato in un coaching ma diventa poi responsabilità della persona farlo diventare normalità, con un impegno essenzialmente quotidiano, continuativo, determinato dalla volontà di una progressione. Come evidenzia un classico di Jung:

Per progressione s’intende anzitutto l’avanzamento quotidiano del processo psicologico di adattamento. Come è noto, l’adattamento non si raggiunge mai una volta per tutte…2.

Jung affronta, già nel 19283, i problemi dell’energia mentale, cercando (almeno concettualmente) di distinguere l’energia vitale dalla forza vitale. Secondo Jung l’energia vitale rappresenta un concetto soprattutto biologico, mentre la forza vitale sarebbe una specificazione di un’energia universale.

Possiamo o meno essere d’accordo, tuttavia il lavoro pionieristico di Jung avanza temi di frontiera e pone domande ancora non risposte, sulle connessioni tra energie biologiche e mentali, e su come accrescere l’“energia vitale”.

Ciò che sappiamo è che le energie mentali elevate non sono analizzabili in modo riduzionistico (solo biologicamente): esiste il tema delle condizioni esistenziali (e non solo biologiche), ad esempio una buona autostima e la fiducia in sé, il supporto degli altri, avere vicino persone sincere che ci apprezzano anche nei nostri difetti e non ci giudicano in continuazione, o il giocare un ruolo che si sente a pieno come proprio, tratti che non vogliamo esaminare solo sotto il profilo biochimico ma richiedono un intervento di analisi esistenziale.

Dobbiamo quindi comprendere che lo sviluppo delle energie mentali richiede il frutto congiunto di una analisi fisica delle condizioni biologiche dell’organismo (condizione bioenergetica) abbinata ad una analisi esistenziale dell’individuo.

1 Jung, C. G. (1928), Energetica Psichica, Boringhieri, Torino, p. 48 (traduzione italiana, edizione 1970), p. 20.

2 Ivi, p. 48.

3 Ibidem.

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Gli effetti positivi delle immissioni di energie sui livelli di performance e di aspirazione

© Articolo a cura di: dott. Daniele Trevisani, Studio Trevisani Formazione, Consulenza e Coaching.

Testo estratto dal volume di Daniele Trevisani “Il Potenziale Umano: metodi e tecniche di coaching e training”, Franco Angeli editore, Milano.

In termini di psicologia positiva notiamo che l’immissione di energia in una qualsiasi cella può apportare maggiori energie al sistema, e quindi riflettiamo sul fatto che esistono molteplici modi e strade, enormi opportunità, per poter accrescere le energie personali e fare coaching e formazione di qualità.

La liberazione da una catena, o “togliere un sasso dal proprio zaino”, può aprire le strade della volontà per una scalata ulteriore. In generale, le immissioni di energie in un certo stadio aumentano il livello di fiducia in se stessi, autostima e percezione di autoefficacia. Aumenta il senso di libertà.

Le osmosi energetiche portano ad una maggiore propensione dell’indi­viduo verso l’assunzione di rischio positivo, di accettazione di sfide che prima il soggetto riteneva impensabili o troppo pericolose. Per rischio positivo intendiamo azioni che non siano minate da un livello di aspirazione malato, superumano e maniacale, condotte col cuore ma anche con la ragione.

I livelli di aspirazione sono decisamente correlati alle energie circolanti.

Gli studi scientifici di Bresson individuano il livello di aspirazione come “il risultato che un soggetto si dà per un fine da raggiungere, in un compito che ammette diversi gradi di realizzazione”1.

A bassi livelli di energie personali corrispondono bassi livelli di aspirazione. Le energie si abbassano drasticamente, e i compiti o goal che l’individuo sente di poter gestire si richiudono sempre più entro una nicchia, sino ad implodere, se la tendenza non viene invertita.

Quando mancano le energie, ogni rischio assume sembianze mostruose, persino lo scendere in strada, o l’incontrare altre persone. Al contrario, forti osmosi energetiche positive (contaminazioni positive tra energie fisiche, mentali, competenze, volontà) conducono alla voglia e consapevolezza di poter accettare sfide e rischi superiori, persino lanciarsi con un paracadute, o condurre una operazione chirurgia al cervello (per un medico), o accettare la sfida di avere figli in un mondo difficile (per ogni genitore), o iniziare a pensare di potersi laureare, per qualcuno che aveva rinunciato a questa idea non sentendosi all’altezza, e tante altre occasioni di crescita.

Per questo motivo, nel metodo HPM, quando i canali per introdurre energie sono bloccati da un certo lato (poniamo i valori, o le competenze), è possibile sia teoricamente che concretamente aggirare questo ostacolo. Potremo partire dalla base delle energie fisiche, o da altri canali aperti o apribili, per incrementare le energie totali del sistema. È un lavoro sperimentato e funzionante nella pratica, di cui troviamo crescente supporto teorico.

Avviare il lavoro, e sbloccare i meccanismi, è più importante che fare un lavoro ingegneristicamente perfetto ma – nei fatti – solo teorico, vuoto.

L’effetto di trascinamento e di osmosi positiva avrà riverberi anche sugli altri stati altrimenti inaccessibili per via diretta.

1 Bresson, F. (1965), Rischio e personalità. Il livello di aspirazione, in Trattato di Psicologia Sperimentale, a cura di Paul Fraisse e Jean Piaget (1978), Einaudi, Torino, p. 458. Edizione originale: Traité de Psychologie Expérimentale. VIII. Langage, communication et décision, 1965, Presses Universitaires de France, Paris.

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Le azioni di sviluppo del potenziale e delle performance

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Testo estratto dal volume di Daniele Trevisani “Il Potenziale Umano: metodi e tecniche di coaching e training”, Franco Angeli editore, Milano.

Le azioni di sviluppo del potenziale umano si dividono in:

  • sviluppo bioenergetico: si prefigge di accrescere le energie del corpo, le forze fisiche, lo stato di salute, forze su cui poggiano tutti gli altri sistemi; vengono individuate sia azioni globali (es.: migliorare lo stato di forma fisico) che azioni localizzate su specifici micro-obiettivi, es.: aumentare la resistenza aerobica, migliorare la postura, rivedere l’alimentazione. Gli interventi si dividono in azioni (1) di riparazione (terapeutiche) o (2) di potenziamento; esse riguardano (a) economie dei distretti locali del corpo e (b) azioni centrate sull’economia corporea complessiva;

  • sviluppo psicoenergetico: crescita delle energie psichiche, motivazione, volontà, spinta interiore ad agire e a progredire; rimozione di blocchi psicologici e stili di pensiero che impediscono di raggiungere il potenziale, individuazione delle auto-limitazioni, irrigidimenti cognitivi, credenze culturali autolimitanti o dannose per sé e per il team; lavoro di consapevolezza dei potenziali, riduzione dello stress negativo, incremento di autostima, lucidità decisionale, chiarezza delle proprie risorse interiori; il lavoro è sia sull’economia cognitiva generale (es.: ridurre l’ansia generalizzata, aumentare l’autoefficacia generale) che su economie di specifiche aree psicologiche in azione, es.: lavorare sull’ansia in un public speaking, o l’ansia pre-gara, o la visualizzazione mentale dell’evento;

  • sviluppo delle micro-competenze: è un lavoro specifico, inteso come innestato all’interno di una matrice di obiettivi legati al ruolo. Richiede di individuare fattori che creano differenza tra un’esecuzione (1) scarsa, (2) normale o media, (3) un’esecuzione di alto livello (il nostro obiettivo finale). Gli esempi possono essere tanti. Es.: localizzare i dettagli che differenziano una vendita da principiante vs. una vendita di alto livello (dove sono esattamente le differenze?); capire le “distintività” (azioni, dettagli, micro-atteggiamenti, micro-comportamenti) che mette in campo un combattente professionista rispetto ad un dilettante, nella preparazione, e durante un incontro. O la differenza che c’è tra un rigore tirato bene e un rigore tirato male, o tra una riformulazione corretta e una sbagliata (per un terapeuta), o per un cuoco, il tempo ottimale di cottura e uno leggermente peggiore. La ricerca di dettagli delle performance può essere applicata in ogni campo. Possiamo localizzare le micro-competenze di un direttore, di un venditore, di un atleta, di un medico, di uno psicologo, di un negoziatore, di un educatore. Il lavoro sulle micro-competenze richiede sia una fase di riconoscimento (detection aumentata, stimolo della capacità di percezione e localizzazione) che una fase di formazione (lavorare sulle variabili prima isolate); produce inoltre un forte incremento della sensibilità ai dettagli, dell’attenzione, della capacità di trovare “cose concrete su cui lavorare”;

  • sviluppo delle macro-competenze: le macro-competenze sono la connessione tra (1) il repertorio globale di abilità della persona e (2) il ruolo che quella persona vuole ricoprire. Le due sfere possono di fatto collimare perfettamente, o invece essere scollegate o ridotte (il che mette la persona in sicura difficoltà). Possono anche essere sovrabbondanti e anticipatorie dei futuri cambiamenti (creando agio e una condizione di maggiore elasticità e sicurezza). Prevedono l’esame del ruolo, delle aspirazioni, delle traiettorie, la rilevazione di gaps (lacune) e incoerenze professionali, analisi di bisogni di revisione o cambiamento significativo del proprio lavoro o della posizione professionale, dei ruoli giocati in campo; richiede valutazione e anticipazione dei mutamenti organizzativi cui dare risposta; sviluppo di una coerenza tra proprio profilo professionale e propri obiettivi di vita o obiettivi aziendali da raggiungere, tra le proprie aspirazioni e le opzioni reali dell’azienda e del team, ricerca di spazi nuovi di espressione;

  • sviluppo della vision e del piano morale: localizzazione degli ancoraggi morali forti, dare spessore morale e senso alla vita e all’azione, costruzione e revisione di un piano di lungo periodo, costruire una linea di tendenza ideale, sognare e idealizzare una traiettoria di crescita positiva; coltivare saggezza nelle scelte, cercare un ancoraggio a valori guida, revisione della mappa di credenze morali e consolidamento di una filosofia di vita positiva. Comprende la ricerca di nuovi stimoli all’autorealizzazione, connessione a valori umani positivi e forti, senso pieno del fare e dell’esistenza, ricerca di un senso profondo dei progetti, trovare motivi e direzioni per cui vale la pena impegnarsi; e persino nuove aree di obiettivi esistenziali o/o professionali che diano sapore e senso alla vita, idee e pensieri ispirativi sui quali la persona non aveva ancora riflettuto.

  • sviluppo di mete, traguardi, goal e progettualità necessaria: definizione di obiettivi precisi da raggiungere, misurabili, tempificabili; progettualità su risultati concretamente raggiungibili; sviluppo della capacità di gestione di tempi (time management) e progetti (project management), gestione efficace delle proprie risorse, capacità di concretizzazione, di realizzazione, abilità nel calare nella realtà un concetto o un obiettivo, trasformare una visione d’insieme in to-do-list (lista delle cose da fare); capacità di tradurre un ideale o un proprio valore in un piano di azione.

I meccanismi energetici nel modello HPM sono molteplici, ma per ora osserviamo due meccanismi in particolare:

  • le diffusioni energetiche: le immissioni di energia in un’area hanno implicazioni positive (fanno bene) anche alle altre aree;

  • i drenaggi energetici: i cali o blocchi di energia in un’area danneggiano anche le altre aree.

Le implicazioni per lo sviluppo personale sono numerose, ma soprattutto:

  • è possibile realizzare una strategia di immissione selettiva di energie in un’area, per poi utilizzarla come perno per lo sviluppo di altre aree. Ad esempio, creare grounding bioenergetico, il che significa lavorare principalmente sulle energie del corpo per poi poter “fare leva” su un corpo energeticamente carico, su un fisico forte, pronto ad assumersi impegni psicologicamente rilevanti, anche gravosi, goal e obiettivi sfidanti;

  • è possibile realizzare una strategia di immissione multipla di energie ricercando una crescita su più livelli e stadi. Ad esempio, lavorare sistematicamente e contemporaneamente su tutte le aree del modello HPM.

In generale, un lavoro su un’area è possibile solo se i livelli energetici di base dell’area toccata sono a livello sufficiente per supportare carichi superiori. Se non vi sono condizioni minime, occorre trovare strade alternative.

Ad esempio, in campo manageriale è completamente inutile realizzare un intervento dalle grandi ambizioni (job enrichment, job enlargement, role-modeling, e altri), attaccando lo strato delle macro-competenze, se le micro-competenze di supporto sono insufficienti. Se una persona non sa nemmeno gestire una riunione di un piccolo gruppo di lavoro, inutile passare a temi ancora più complessi che poggiano su competenze che ancora non ci sono.

Altrettanto inutile è riempire di competenze (skills) un manager se mancano le energie motivazionali (volontà) necessarie a mettersi in gioco.

Inutile studiare nuovi progetti creativi se l’intero team è in stato di demotivazione cronica o affaticamento. Una persona disabilitata nelle energie mentali non va da nessuna parte, non porta avanti nemmeno se stessa, e tantomeno il progetto più ambizioso che qualsiasi mente possa partorire.

In generale, in mancanza di energie, il “nuovo” non viene affrontato. Sem­plicemente non ci sono le forze per affrontare il cambiamento.

L’area psicoenergetica assieme a quella bioenergetica sono quindi ancoraggi forti di lavoro per un coaching e una formazione seria e analitica.

Saltarli piè pari e passare subito alle competenze applicative è inutile. Così come costruire progetti che richiedono presenza di energie che non ci sono.

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Rilevazione e smontaggio dei prototipi

© Articolo a cura di: dott. Daniele Trevisani, Studio Trevisani Formazione, Consulenza e Coaching.

Testo estratto dal volume di Daniele Trevisani “Regie di Cambiamento”, Franco Angeli editore, Milano.

Vediamo il caso in cui un gruppo di dirigenti stia negoziando quale sia la modalità migliore per sviluppare le proprie risorse umane e motivarle. Un esempio di prototipo errato che inizia a circolare nella riunione può essere “qui non bisogna fare della teoria ma della pratica”. Il portatore del prototipo in questo caso è l’Amministratore Delegato.

Questo prototipo può venire espresso in molti formati, ad esempio:

  • una pseudo-citazione da Napoleone: “sa qual era la strategia di Napoleone: tutta azione!”;

  • frasi ad effetto: “io voglio vedere attività, voglio azione, non mi interessa la teoria”; “quello che conta è la rapidità”;

  • attacchi diretti: “state perdendo tempo a discutere di piani e strategie, tutta teoria, il bilancio a fine anno non si fa con la teoria!”.

Questo prototipo è errato poiché nessun intervento su una organizzazione complessa può fare a meno di una qualche forma di teoria.

Un prototipo mentale errato richiede la ricerca di un contro-prototipo alternativo e sostitutivo. Ad esempio il contro-prototipo diventa: “agire senza teoria significa procedere senza una mappa di dove si stia andando”. Affermare che un bilancio di fine anno non dipende da teorie significa affermare che non esiste nemmeno una “teoria del bilancio aziendale” fatta di costi meno i ricavi, e che ciascuno dei fattori ha a sua volta dei sub-fattori. Le teorie, anche se latenti, sono indispensabili per poter decidere dove agire bene.

Quando un prototipo disfunzionale come “agite senza teoria”, un cataclisma mentale di questo tipo – si propaga all’interno dell’impresa – esso può arrivare a permeare tutta l’organizzazione, con ricadute disastrose.

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Lo spirito guerriero nella vita di ogni giorno – lezioni antiche dalla mente dei Samu­rai

© Articolo a cura di: dott. Daniele Trevisani, Studio Trevisani Formazione, Consulenza e Coaching.

Testo estratto dal volume di Daniele Trevisani “Il Potenziale Umano: metodi e tecniche di coaching e training”, Franco Angeli editore, Milano.

Chi si impegna per produrre performance umane deve assumere un preciso abito mentale. È l’assetto del guerriero, del Samurai, del combattente, del ricercatore concentrato, del missionario che crede in una causa.

È l’atteggiamento focalizzato di chi desidera ottenere qualcosa che reputa importante e – durante l’esecuzione – non si lascia distrarre da altro. Di chi ha un valore e lotta per esso. Di chi fa della causa una parte di sé.

Non riguarda solo enormi imprese, ma anche e soprattutto la vita di ogni giorno. Il più grande Samurai di ogni tempo, Musashi1, così descrive l’abito mentale di chi vuole intraprendere la vita del Samurai:

Chi voglia intraprendere la via dell’Hejò (strategia)

tenga a mente i seguenti precetti.

Primo: Non coltivare cattivi pensieri.

Secondo: Esercitati con dedizione.

Terzo: Studia tutte le arti.

Quarto: Conosci anche gli altri mestieri.

Quinto: Distingui l’utile dall’inutile.

Sesto: Riconosci il vero dal falso.

Settimo: Percepisci anche quello che non vedi con gli occhi.

Ottavo: Non essere trascurato neppure nelle minuzie.

Nono: Non abbandonarti in attività futili2.

È eccezionale notare come anche oggi questo abito mentale sia dotato di enorme suggestività per chi intende sviluppare il proprio potenziale. Ci parla, infatti, di un atteggiamento di fondo.

È l’atteggiamento di serietà con cui un calciatore professionista rimane persona umile, cura alimentazione e riposo, rispetto al divo del calcio che assume atteggiamenti da star e si presenta tardi agli allenamenti.

È lo spirito di una ragazza che decide di sputare (esatto, sputare) sul modello proposto dai media di cosa sia una ragazza “arrivata” (fotomodella, star televisiva, protagonista di reality show, anoressica, o bambola da chirurgo plastico) e piuttosto si impegna nello studio, in una professione utile, o in campo sociale, mandando a quel paese il modello che fa coincidere carriera con arcata dentale, natiche e scollatura.

È il coraggio di un ricercatore che intraprende vie di ricerca e sperimentazione inusuali ma dalle quali pensa di poter dare una aiuto al mondo, piccolo o grande, anche andando contro i baroni accademici e lo status quo.

È la saggezza del lottatore che cura attentamente il suo recupero prima di gettarsi in una nuova battaglia, consapevole del fatto che se non avrà riposato abbastanza non potrà sostenere molte battaglie e si brucerà.

È la passione di chi si impegna per una causa, fatica, fa rinunce ma non le rimpiange, e si sacrifica per qualcosa di cui forse non vedrà nemmeno i frutti in vita.

Ma non tutto è solo sacrificio. Le performance sono anche contribuzione, gioia, celebrazione, divertimento, piacere, il gusto di fare qualcosa di importante, essere parte di qualcosa, di lasciare un segno, di compiere imprese assieme a qualcuno e fare team. O la voglia di essere ciò che possiamo essere.

I veri performer sanno anche celebrare i propri risultati e vivere a pieno.

Ciascun precetto di Musashi si riferisce anche oggi ad una o più aree della psicologia delle performance e mantiene una validità assoluta:

Primo: Non coltivare cattivi pensieri. L’esercizio di un atteggiamento mentale positivo, il pensiero positivo, la concentrazione su ciò che di buono e utile vogliamo ottenere, allontanarsi da pensieri negativi o dal male; la ricerca di quello che oggi chiamiamo uno “stile cognitivo” efficace.

Secondo: Esercitati con dedizione. Oggi chiamato training, formazione, tecniche di allenamento e addestramento, e soprattutto, la necessità del performer di applicarsi in un active training, cioè in esercitazioni attive e non solo analisi teorica, e farlo con dedizione, nel tempo, e con continuità.

Terzo: Studia tutte le arti. L’approccio enciclopedico, la contaminazione positiva che deriva dall’andare fuori dai propri recinti e studiare le cose più disparate, interessarsi anche di ciò che altre discipline indagano, il contrario della chiusura in un recinto professionale o disciplinare, male odierno, il contrario delle sette, e della cultura dell’egoismo.

Quarto: Conosci anche gli altri mestieri. La capacità di muoversi ed agire anche in campi esterni, l’allargamento del proprio repertorio professionale, sapersi muovere anche fuori dal proprio campo di azione limitato, essere capaci anche in altre abilità e professioni, spaziare, non chiudersi.

Quinto: Distingui l’utile dall’inutile. Concetto similare a quello che nel sistema HPM chiamiamo Retargeting Mental Energy, o ricentraggio delle energie mentali, ciò che permette alle persone di capire veramente cosa merita il proprio impegno e cosa non lo merita, dove centrarsi o ricentrarsi nel proprio focus di attenzione, e quindi verso cosa direzionare le energie personali.

Sesto: Riconosci il vero dal falso. Coltivare le capacità di analisi, la percezione pura e decontaminata da preconcetti e distorsioni, il bisogno di verità, il bisogno di pulizia psicologica, il bisogno di sviluppare le capacità di riconoscimento (detection) indispensabile ad esempio in chi svolge il mestiere di negoziatore o di comunicatore, o in chi guida le persone (leader) o in chi lavora in gruppo (team working). Ed ancora, il bisogno di distinguere fatti da opinioni, teorie accertate da ipotesi, affermazioni personali da idee condivise.

Settimo: Percepisci anche quello che non vedi con gli occhi. La percezione è il fenomeno oggi più centrale in molte forme di psicologia, e comprende sia la propriocezione (capacità di percepire se stessi), che la percezione ambientale. Il settimo precetto di Musashi indirizza verso abilità di percezione aumentata, disambiguamento dalle illusioni percettive, sviluppo della sensibilità umana e sensoriale, ricerca di significati e quadri di analisi (Gestalt), e il potenziamento delle facoltà di osservazione. Tratta quindi di una “percezione allargata”, opposta ad una chiusura percettiva.

Ottavo: Non essere trascurato neppure nelle minuzie. Il bisogno di entrare nelle micro-competenze, la ricerca dell’eccellenza, l’abbandono di un atteggiamento di pressapochismo e banalizzazione. Attenzione ai dettagli che contano, assunzione di un atteggiamento di amore per quello che si fa e per come lo si fa.

Nono: Non abbandonarti in attività futili. Capire che il tempo è prezioso, e dobbiamo veramente decidere se abbandonarci ad uno squallido clone del modo con cui le persone comuni usano il tempo (copiare il mainstream), lasciarsi andare come bastoni sul corso di un fiume di qualunquismo, assecondare la piattezza di ciò che tutti gli altri fanno, o assertivamente prendere in mano il nostro tempo e decidere di farne qualcosa, allenarci, studiare, intraprendere, esplorare, scrivere, condividere, sperimentare nuove conoscenze; ed ancora, capire che esistono diversi macro-tempi, quello della produttività, dello studio, dell’auto-organizzazione, delle relazioni sociali, e quello del recupero, della meditazione, del relax, ma non esistono i tempi delle relazioni obbligate, lo spreco di tempo con persone piatte o arroganti o prepotenti, e vanno riconosciute e rimosse le attività di pura abulia o distruzione di sé.

Le lezioni di Musashi vengono da un performer che ha passato la vita a sfidare la morte, e hanno un significato odierno assoluto.

È ancora più incredibile notare come già nel 1600 Musashi concentrasse tutta la sua analisi su aspetti di enorme attualità: sinergia tra corpo e mente, correlazione tra preparazione fisica e mentale, il fatto che la preparazione o una vittoria sia una conquista personale e non un diritto da pretendere, e che prima si debba cercare un approccio mentale e strategico valido, e solo dopo vengono i dettegli operativi. Una lezione che nel terzo millennio moltissimi sportivi e manager devono ancora imparare.

Quando si dedicano assiduamente tutte le proprie energie all’Hejò e si cerca con costanza la verità è possibile battere chiunque e ovviamente raggiungere la supremazia, sia perché si ha il pieno controllo del proprio corpo, grazie all’esercizio fisico, e sia perché si è padroni della mente, per merito della disciplina spirituale. Chi ha raggiunto questo livello di preparazione non può essere sconfitto3.

Dobbiamo oggi riflettere sul significato profondo che queste parole assumono: dedizione, ricerca della verità, pulizia spirituale, sono il vero messaggio di fondo. La ricerca della supremazia e della vittoria appartengono ad una realtà medioevale, vengono dall’essere nati in un certo momento storico dove questo significava vivere o morire. Se, in una mattina del 1600, qualcuno si fosse presentato a noi con una spada per ucciderci, sarebbero state drammaticamente importanti anche per noi.

Oggi i nemici veri non portano spade ma, là fuori, si aggirano ringhiando.

Si chiamano miseria, ignoranza, ipocrisia, prepotenza, arroganza, dolore esistenziale, fame, violenza, bambini che soffrono, nepotismi, corruzione, sistemi clientelari – e soprattutto- fonte di ogni male, l’incomunicabilità.

I nemici possono essere anche dentro: presunzione, chiusura mentale, perdita di senso, perdita di stima in sè, perdita di valori, perdita di orizzonti, chiusura verso nuovi concetti, auto-castrazione, smettere di sognare o credere in qualcosa, chiusura della propria prospettiva temporale in orizzonti sempre più brevi e limitati, vivere solo per se stessi.

Contro questi nemici gli insegnamenti di Musashi, e lo spirito guerriero che li anima, hanno ancora enorme senso e validità. Respirare ogni giorno a pieni polmoni uno spirito guerriero per fini positivi è un abito mentale. Alzarsi con questo spirito, andare a dormire con questo spirito, risvegliare gli archetipi guerrieri e direzionarli per costruire, è una sfida nuova, entusiasmante, che fa onore al dono di esistere.

1 Miyamoto Musashi, 1584-1645, giapponese, considerato nelle arti marziali come il più grande Samurai vissuto in ogni tempo. Ebbe il primo duello mortale a 13 anni, e vinse. Vagò per il Giappone come Ronin (guerriero errante) per anni, battendosi per sessanta volte ottenendo sempre la vittoria, lottando anche contro più avversari contemporaneamente o superando imboscate e duelli con decine di avversari. A 50 anni si ritirò per dedicarsi allo studio, alla letteratura e ad altre discipline artistiche risultando un maestro in molte di esse. Nel­la pittura, nella calligrafia, le sue opere oggi fanno parte del patrimonio artistico giap­po­nese. A 60 anni si ritirò in una grotta per scrivere il suo Manuale. In Giappone oggi è leggenda.

2 Musashi, Myamoto (1644), Il libro dei cinque anelli (Gorin No Sho), edizione italiana Mediterranee, Roma, 1985, ristampa 2005, p. 61.

3 Ivi, p. 62.

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©Copyright. Vietata la copia o riproduzione non autorizzata. Per contatti. Altri approfondimenti sul volume sono disponibili alla sezione dedicata al Potenziale Umano sul sito Studiotrevisani e sul blog Potenziale Umano, risorse per la crescita personale, formazione e coaching.

Dare il meglio di sé

© Articolo a cura di: dott. Daniele Trevisani, Studio Trevisani Formazione, Consulenza e Coaching.

Testo estratto dal volume di Daniele Trevisani “Il Potenziale Umano: metodi e tecniche di coaching e training”, Franco Angeli editore, Milano.

Il significato di un uomo non va ricercato in ciò che egli raggiunge, ma in ciò che vorrebbe raggiungere.

(K. Gibran)

Chi si occupa di potenziale umano e di performance con fini professionali ha in mente sicuramente traguardi veri e forti di miglioramento, per sé e gli altri. Se così non fosse saremmo veramente fuori strada. Chi svolge questo tipo di missione con fare burocratico o apatico ne stravolge realmente il senso.

Ne deforma il senso anche chi confonde le performance di superficie (più eclatanti ed evidenti) con le performance profonde (crescita personale, evoluzione spirituale), e investe solo sule prime e poco sulle ultime.

Facciamo un esempio pratico rispetto al coaching educativo e al ruolo di un learning coach. Far sì che un ragazzo/a dia il meglio di sé nella scuola o università è il motore morale corretto, e soprattutto che trovi equilibrio tra studio e attività fisica, senza scompensi che lo danneggino nel lungo termine. Essere i primi della classe ma non amare lo studio è pura distorsione.

Le società iper-competitive che premiano solo chi arriva in alto, chi primeggia, i vincenti forzati , creano mostri. Confondono il contributo con la posizione. La domanda che qualcuno, al termine dei nostri giorni, dovrebbe porci, non è “dove sei arrivato”, ma “a cosa hai contribuito veramente”?

Questo è un nuovo metro di misura da adottare. Per un manager, per un trainer, per un politico, per un ricercatore, e per ogni essere vivente, vivere a pieno non significa “smarcare” le proprie giornate arrivando a sera in qualche modo. Significa assumersi in pieno il ruolo di “contributori”.

Dare il meglio di sè non equivale a primeggiare. Significa invece essere parte di un ideale, e concretizzarlo in piccoli cambiamenti di atteggiamento.

Nello studio, non sarà il singolo voto a contare, ma l’avvio di un nuovo atteggiamento di amore verso lo studio o verso una materia. Sarà un nuovo senso di sfida positiva, o il piacere dell’apprendere, a dirci se siamo o meno sulla strada giusta. Ancora una volta: dare il meglio di sé non è studiare per il singolo voto ma studiare per apprendere.

La pura performance (il voto), è secondaria, è una cartina di tornasole di cosa succede dentro, ma non è il dentro, e, addirittura, se fosse regalato o frutto di copiatura non ci direbbe niente sullo stato di avanzamento della persona. Proponiamo questa libera riflessione di Madre Teresa di Calcutta, come stimolo di riflessione, aperto sia a critiche che apprezzamenti:

Il meglio di te

L’uomo è irragionevole,

illogico, egocentrico:

non importa, amalo

Se fai il bene,

diranno che lo fai

per secondi fini egoistici:

non importa, fa’ il bene.

Se realizzi i tuoi obiettivi,

incontrerai chi ti ostacola:

non importa, realizzali.

Il bene che fai

forse domani verrà dimenticato:

non importa, fa’ il bene.

L’onestà e la sincerità

ti rendono vulnerabile:

non importa, sii onesto e sincero.

Quello che hai costruito

può essere distrutto:

non importa, costruisci.

La gente che hai aiutato,

forse non te ne sarà grata:

non importa, aiutala.

Dà al mondo il meglio di te,

e forse sarai preso a pedate:

non importa, dà il meglio di te.

Queste parole non sono vuote, possono essere concretizzate.

Coach e formatori impegnati e seri lavorano per rendere concreta l’espressione di sé e dei potenziali.

Un coaching analitico ricerca la crescita della persona e non la crescita di un lato della persona a scapito dell’equilibrio complessivo. Spremere un frutto e gettarlo non è il nostro fine. Il nostro fine è coltivare la pianta.

Dare il meglio non significa bruciare se stessi o gli altri, spremersi sino a distruggersi. Anche in un coaching sportivo vale lo stesso principio. Operare per rendere un atleta una persona d’onore, seria, impegnata, continuativa, deve essere il motore psicologico di un coach sportivo. Vincere una stagione e bruciarla per il resto della vita non è coaching, è uccidere la persona.

Lo stesso nel TeamCoaching. Fare di una squadra un gruppo con dei valori e degli ideali, un gruppo che quando va in campo dà il meglio di sé, un gruppo che vuole esprimersi ed essere sempre orgoglioso di come ha giocato e dello spirito che ha, è lo scopo di uno team-coach.

Stesso discorso sul piano aziendale. Un coach aziendale, un formatore o consulente serio, puntano alla realizzazione delle potenzialità (nel coaching manageriale). O, nel lavoro sulla leadership, avremo successo quando un leader smette di fingere a se stesso e agli altri, procede verso una direzione di autenticità e maturità prima di tutto come persona.

Nella consulenza, avremo obiettivi diversi, come il trovare nuovi equilibri solidi, e non necessariamente aumenti di fatturato “di facciata”, se possono nascondere drammatiche crisi di solidità aziendale vera.

Ed ancora, un formatore aziendale non è felice solo per come finisce la giornata formativa, ma per lo spirito che lo anima, e con cui entra: si entra nell’aula con anima combattiva (o missionaria), voglia di incidere, creare pensiero e crescita. Questo significa aiutare il gruppo che ha davanti a sè a riflettere su come pensa e come lavora, fargli fare esperienze impattanti ma soprattutto utili, portargli stimoli e concetti che allargheranno il loro patrimonio professionale o ne rimuovano incrostazioni.

Un trainer serio non si accontenta di “smarcare” una giornata, dire o fare qualsiasi cosa faccia divertire il pubblico e gli dia punteggi elevati sulle “valutazioni” di fine corso.

Per far emergere il meglio delle persone bisogna anche essere disposti ad andare controcorrente, a rischiare, a difendere un concetto in cui crede.

Un ulteriore commento: dare il meglio di sé è un atteggiamento che si può apprendere, è stimolabile e generabile tramite un buon modeling, e fare da esempio agli altri, ove possibile, è una nostra precisa responsabilità.

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©Copyright. Vietata la copia o riproduzione non autorizzata. Per contatti. Altri approfondimenti sul volume sono disponibili alla sezione dedicata al Potenziale Umano sul sito Studiotrevisani e sul blog Potenziale Umano, risorse per la crescita personale, formazione e coaching.

L’abito mentale delle performance, lo spirito guerriero nella vita di ogni giorno (lezioni dai Samu­rai)

© Articolo a cura di: dott. Daniele Trevisani, Studio Trevisani Formazione, Consulenza e Coaching.

Testo estratto dal volume di Daniele Trevisani “Il Potenziale Umano: metodi e tecniche di coaching e training”, Franco Angeli editore, Milano.

Chi si impegna per produrre performance umane deve assumere un preciso abito mentale. È l’assetto del guerriero, del Samurai, del combattente, del ricercatore concentrato, del missionario che crede in una causa.

È l’atteggiamento focalizzato di chi desidera ottenere qualcosa che reputa importante e – durante l’esecuzione – non si lascia distrarre da altro. Di chi ha un valore e lotta per esso. Di chi fa della causa una parte di sé.

Non riguarda solo enormi imprese, ma anche e soprattutto la vita di ogni giorno. Il più grande Samurai di ogni tempo, Musashi1, così descrive l’abito mentale di chi vuole intraprendere la vita del Samurai:

Chi voglia intraprendere la via dell’Hejò (strategia)

tenga a mente i seguenti precetti.

Primo: Non coltivare cattivi pensieri.

Secondo: Esercitati con dedizione.

Terzo: Studia tutte le arti.

Quarto: Conosci anche gli altri mestieri.

Quinto: Distingui l’utile dall’inutile.

Sesto: Riconosci il vero dal falso.

Settimo: Percepisci anche quello che non vedi con gli occhi.

Ottavo: Non essere trascurato neppure nelle minuzie.

Nono: Non abbandonarti in attività futili2.

È eccezionale notare come anche oggi questo abito mentale sia dotato di enorme suggestività per chi intende sviluppare il proprio potenziale. Ci parla, infatti, di un atteggiamento di fondo.

È l’atteggiamento di serietà con cui un calciatore professionista rimane persona umile, cura alimentazione e riposo, rispetto al divo del calcio che assume atteggiamenti da star e si presenta tardi agli allenamenti.

È lo spirito di una ragazza che decide di sputare (esatto, sputare) sul modello proposto dai media di cosa sia una ragazza “arrivata” (fotomodella, star televisiva, protagonista di reality show, anoressica, o bambola da chirurgo plastico) e piuttosto si impegna nello studio, in una professione utile, o in campo sociale, mandando a quel paese il modello che fa coincidere carriera con arcata dentale, natiche e scollatura.

È il coraggio di un ricercatore che intraprende vie di ricerca e sperimentazione inusuali ma dalle quali pensa di poter dare una aiuto al mondo, piccolo o grande, anche andando contro i baroni accademici e lo status quo.

È la saggezza del lottatore che cura attentamente il suo recupero prima di gettarsi in una nuova battaglia, consapevole del fatto che se non avrà riposato abbastanza non potrà sostenere molte battaglie e si brucerà.

È la passione di chi si impegna per una causa, fatica, fa rinunce ma non le rimpiange, e si sacrifica per qualcosa di cui forse non vedrà nemmeno i frutti in vita.

Ma non tutto è solo sacrificio. Le performance sono anche contribuzione, gioia, celebrazione, divertimento, piacere, il gusto di fare qualcosa di importante, essere parte di qualcosa, di lasciare un segno, di compiere imprese assieme a qualcuno e fare team. O la voglia di essere ciò che possiamo essere.

I veri performer sanno anche celebrare i propri risultati e vivere a pieno.

Ciascun precetto di Musashi si riferisce anche oggi ad una o più aree della psicologia delle performance e mantiene una validità assoluta:

Primo: Non coltivare cattivi pensieri. L’esercizio di un atteggiamento mentale positivo, il pensiero positivo, la concentrazione su ciò che di buono e utile vogliamo ottenere, allontanarsi da pensieri negativi o dal male; la ricerca di quello che oggi chiamiamo uno “stile cognitivo” efficace.

Secondo: Esercitati con dedizione. Oggi chiamato training, formazione, tecniche di allenamento e addestramento, e soprattutto, la necessità del performer di applicarsi in un active training, cioè in esercitazioni attive e non solo analisi teorica, e farlo con dedizione, nel tempo, e con continuità.

Terzo: Studia tutte le arti. L’approccio enciclopedico, la contaminazione positiva che deriva dall’andare fuori dai propri recinti e studiare le cose più disparate, interessarsi anche di ciò che altre discipline indagano, il contrario della chiusura in un recinto professionale o disciplinare, male odierno, il contrario delle sette, e della cultura dell’egoismo.

Quarto: Conosci anche gli altri mestieri. La capacità di muoversi ed agire anche in campi esterni, l’allargamento del proprio repertorio professionale, sapersi muovere anche fuori dal proprio campo di azione limitato, essere capaci anche in altre abilità e professioni, spaziare, non chiudersi.

Quinto: Distingui l’utile dall’inutile. Concetto similare a quello che nel sistema HPM chiamiamo Retargeting Mental Energy, o ricentraggio delle energie mentali, ciò che permette alle persone di capire veramente cosa merita il proprio impegno e cosa non lo merita, dove centrarsi o ricentrarsi nel proprio focus di attenzione, e quindi verso cosa direzionare le energie personali.

Sesto: Riconosci il vero dal falso. Coltivare le capacità di analisi, la percezione pura e decontaminata da preconcetti e distorsioni, il bisogno di verità, il bisogno di pulizia psicologica, il bisogno di sviluppare le capacità di riconoscimento (detection) indispensabile ad esempio in chi svolge il mestiere di negoziatore o di comunicatore, o in chi guida le persone (leader) o in chi lavora in gruppo (team working). Ed ancora, il bisogno di distinguere fatti da opinioni, teorie accertate da ipotesi, affermazioni personali da idee condivise.

Settimo: Percepisci anche quello che non vedi con gli occhi. La percezione è il fenomeno oggi più centrale in molte forme di psicologia, e comprende sia la propriocezione (capacità di percepire se stessi), che la percezione ambientale. Il settimo precetto di Musashi indirizza verso abilità di percezione aumentata, disambiguamento dalle illusioni percettive, sviluppo della sensibilità umana e sensoriale, ricerca di significati e quadri di analisi (Gestalt), e il potenziamento delle facoltà di osservazione. Tratta quindi di una “percezione allargata”, opposta ad una chiusura percettiva.

Ottavo: Non essere trascurato neppure nelle minuzie. Il bisogno di entrare nelle micro-competenze, la ricerca dell’eccellenza, l’abbandono di un atteggiamento di pressapochismo e banalizzazione. Attenzione ai dettagli che contano, assunzione di un atteggiamento di amore per quello che si fa e per come lo si fa.

Nono: Non abbandonarti in attività futili. Capire che il tempo è prezioso, e dobbiamo veramente decidere se abbandonarci ad uno squallido clone del modo con cui le persone comuni usano il tempo (copiare il mainstream), lasciarsi andare come bastoni sul corso di un fiume di qualunquismo, assecondare la piattezza di ciò che tutti gli altri fanno, o assertivamente prendere in mano il nostro tempo e decidere di farne qualcosa, allenarci, studiare, intraprendere, esplorare, scrivere, condividere, sperimentare nuove conoscenze; ed ancora, capire che esistono diversi macro-tempi, quello della produttività, dello studio, dell’auto-organizzazione, delle relazioni sociali, e quello del recupero, della meditazione, del relax, ma non esistono i tempi delle relazioni obbligate, lo spreco di tempo con persone piatte o arroganti o prepotenti, e vanno riconosciute e rimosse le attività di pura abulia o distruzione di sé.

Le lezioni di Musashi vengono da un performer che ha passato la vita a sfidare la morte, e hanno un significato odierno assoluto.

È ancora più incredibile notare come già nel 1600 Musashi concentrasse tutta la sua analisi su aspetti di enorme attualità: sinergia tra corpo e mente, correlazione tra preparazione fisica e mentale, il fatto che la preparazione o una vittoria sia una conquista personale e non un diritto da pretendere, e che prima si debba cercare un approccio mentale e strategico valido, e solo dopo vengono i dettegli operativi. Una lezione che nel terzo millennio moltissimi sportivi e manager devono ancora imparare.

Quando si dedicano assiduamente tutte le proprie energie allHejò e si cerca con costanza la verità è possibile battere chiunque e ovviamente raggiungere la supremazia, sia perché si ha il pieno controllo del proprio corpo, grazie all’esercizio fisico, e sia perché si è padroni della mente, per merito della disciplina spirituale. Chi ha raggiunto questo livello di preparazione non può essere sconfitto3.

Dobbiamo oggi riflettere sul significato profondo che queste parole assumono: dedizione, ricerca della verità, pulizia spirituale, sono il vero messaggio di fondo. La ricerca della supremazia e della vittoria appartengono ad una realtà medioevale, vengono dall’essere nati in un certo momento storico dove questo significava vivere o morire. Se, in una mattina del 1600, qualcuno si fosse presentato a noi con una spada per ucciderci, sarebbero state drammaticamente importanti anche per noi.

Oggi i nemici veri non portano spade ma, là fuori, si aggirano ringhiando.

Si chiamano miseria, ignoranza, ipocrisia, prepotenza, arroganza, dolore esistenziale, fame, violenza, bambini che soffrono, nepotismi, corruzione, sistemi clientelari – e soprattutto- fonte di ogni male, l’incomunicabilità.

I nemici possono essere anche dentro: presunzione, chiusura mentale, perdita di senso, perdita di stima in sè, perdita di valori, perdita di orizzonti, chiusura verso nuovi concetti, auto-castrazione, smettere di sognare o credere in qualcosa, chiusura della propria prospettiva temporale in orizzonti sempre più brevi e limitati, vivere solo per se stessi.

Contro questi nemici gli insegnamenti di Musashi, e lo spirito guerriero che li anima, hanno ancora enorme senso e validità. Respirare ogni giorno a pieni polmoni uno spirito guerriero per fini positivi è un abito mentale. Alzarsi con questo spirito, andare a dormire con questo spirito, risvegliare gli archetipi guerrieri e direzionarli per costruire, è una sfida nuova, entusiasmante, che fa onore al dono di esistere.

1 Miyamoto Musashi, 1584-1645, giapponese, considerato nelle arti marziali come il più grande Samurai vissuto in ogni tempo. Ebbe il primo duello mortale a 13 anni, e vinse. Vagò per il Giappone come Ronin (guerriero errante) per anni, battendosi per sessanta volte ottenendo sempre la vittoria, lottando anche contro più avversari contemporaneamente o superando imboscate e duelli con decine di avversari. A 50 anni si ritirò per dedicarsi allo studio, alla letteratura e ad altre discipline artistiche risultando un maestro in molte di esse. Nel­la pittura, nella calligrafia, le sue opere oggi fanno parte del patrimonio artistico giap­po­nese. A 60 anni si ritirò in una grotta per scrivere il suo Manuale. In Giappone oggi è leggenda.

2 Musashi, Myamoto (1644), Il libro dei cinque anelli (Gorin No Sho), edizione italiana Mediterranee, Roma, 1985, ristampa 2005, p. 61.

3 Ivi, p. 62.

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©Copyright. Vietata la copia o riproduzione non autorizzata. Per contatti. Altri approfondimenti sul volume sono disponibili alla sezione dedicata al Potenziale Umano sul sito Studiotrevisani e sul blog Potenziale Umano, risorse per la crescita personale, formazione e coaching.

Dare il meglio di sé

© Articolo a cura di: dott. Daniele Trevisani, Studio Trevisani Formazione, Consulenza e Coaching.

Testo estratto dal volume di Daniele Trevisani “Il Potenziale Umano: metodi e tecniche di coaching e training”, Franco Angeli editore, Milano.

Il significato di un uomo non va ricercato in ciò che egli raggiunge, ma in ciò che vorrebbe raggiungere.

(K. Gibran)

Chi si occupa di potenziale umano e di performance con fini professionali ha in mente sicuramente traguardi veri e forti di miglioramento, per sé e gli altri. Se così non fosse saremmo veramente fuori strada. Chi svolge questo tipo di missione con fare burocratico o apatico ne stravolge realmente il senso.

Ne deforma il senso anche chi confonde le performance di superficie (più eclatanti ed evidenti) con le performance profonde (crescita personale, evoluzione spirituale), e investe solo sule prime e poco sulle ultime.

Facciamo un esempio pratico rispetto al coaching educativo e al ruolo di un learning coach. Far sì che un ragazzo/a dia il meglio di sé nella scuola o università è il motore morale corretto, e soprattutto che trovi equilibrio tra studio e attività fisica, senza scompensi che lo danneggino nel lungo termine. Essere i primi della classe ma non amare lo studio è pura distorsione.

Le società iper-competitive che premiano solo chi arriva in alto, chi primeggia, i vincenti forzati , creano mostri. Confondono il contributo con la posizione. La domanda che qualcuno, al termine dei nostri giorni, dovrebbe porci, non è “dove sei arrivato”, ma “a cosa hai contribuito veramente”?

Questo è un nuovo metro di misura da adottare. Per un manager, per un trainer, per un politico, per un ricercatore, e per ogni essere vivente, vivere a pieno non significa “smarcare” le proprie giornate arrivando a sera in qualche modo. Significa assumersi in pieno il ruolo di “contributori”.

Dare il meglio di sè non equivale a primeggiare. Significa invece essere parte di un ideale, e concretizzarlo in piccoli cambiamenti di atteggiamento.

Nello studio, non sarà il singolo voto a contare, ma l’avvio di un nuovo atteggiamento di amore verso lo studio o verso una materia. Sarà un nuovo senso di sfida positiva, o il piacere dell’apprendere, a dirci se siamo o meno sulla strada giusta. Ancora una volta: dare il meglio di sé non è studiare per il singolo voto ma studiare per apprendere.

La pura performance (il voto), è secondaria, è una cartina di tornasole di cosa succede dentro, ma non è il dentro, e, addirittura, se fosse regalato o frutto di copiatura non ci direbbe niente sullo stato di avanzamento della persona. Proponiamo questa libera riflessione di Madre Teresa di Calcutta, come stimolo di riflessione, aperto sia a critiche che apprezzamenti:

Il meglio di te

L’uomo è irragionevole,

illogico, egocentrico:

non importa, amalo

Se fai il bene,

diranno che lo fai

per secondi fini egoistici:

non importa, fa’ il bene.

Se realizzi i tuoi obiettivi,

incontrerai chi ti ostacola:

non importa, realizzali.

Il bene che fai

forse domani verrà dimenticato:

non importa, fa’ il bene.

L’onestà e la sincerità

ti rendono vulnerabile:

non importa, sii onesto e sincero.

Quello che hai costruito

può essere distrutto:

non importa, costruisci.

La gente che hai aiutato,

forse non te ne sarà grata:

non importa, aiutala.

Dà al mondo il meglio di te,

e forse sarai preso a pedate:

non importa, dà il meglio di te.

Queste parole non sono vuote, possono essere concretizzate.

Coach e formatori impegnati e seri lavorano per rendere concreta l’espressione di sé e dei potenziali.

Un coaching analitico ricerca la crescita della persona e non la crescita di un lato della persona a scapito dell’equilibrio complessivo. Spremere un frutto e gettarlo non è il nostro fine. Il nostro fine è coltivare la pianta.

Dare il meglio non significa bruciare se stessi o gli altri, spremersi sino a distruggersi. Anche in un coaching sportivo vale lo stesso principio. Operare per rendere un atleta una persona d’onore, seria, impegnata, continuativa, deve essere il motore psicologico di un coach sportivo. Vincere una stagione e bruciarla per il resto della vita non è coaching, è uccidere la persona.

Lo stesso nel TeamCoaching. Fare di una squadra un gruppo con dei valori e degli ideali, un gruppo che quando va in campo dà il meglio di sé, un gruppo che vuole esprimersi ed essere sempre orgoglioso di come ha giocato e dello spirito che ha, è lo scopo di uno team-coach.

Stesso discorso sul piano aziendale. Un coach aziendale, un formatore o consulente serio, puntano alla realizzazione delle potenzialità (nel coaching manageriale). O, nel lavoro sulla leadership, avremo successo quando un leader smette di fingere a se stesso e agli altri, procede verso una direzione di autenticità e maturità prima di tutto come persona.

Nella consulenza, avremo obiettivi diversi, come il trovare nuovi equilibri solidi, e non necessariamente aumenti di fatturato “di facciata”, se possono nascondere drammatiche crisi di solidità aziendale vera.

Ed ancora, un formatore aziendale non è felice solo per come finisce la giornata formativa, ma per lo spirito che lo anima, e con cui entra: si entra nell’aula con anima combattiva (o missionaria), voglia di incidere, creare pensiero e crescita. Questo significa aiutare il gruppo che ha davanti a sè a riflettere su come pensa e come lavora, fargli fare esperienze impattanti ma soprattutto utili, portargli stimoli e concetti che allargheranno il loro patrimonio professionale o ne rimuovano incrostazioni.

Un trainer serio non si accontenta di “smarcare” una giornata, dire o fare qualsiasi cosa faccia divertire il pubblico e gli dia punteggi elevati sulle “valutazioni” di fine corso.

Per far emergere il meglio delle persone bisogna anche essere disposti ad andare controcorrente, a rischiare, a difendere un concetto in cui crede.

Un ulteriore commento: dare il meglio di sé è un atteggiamento che si può apprendere, è stimolabile e generabile tramite un buon modeling, e fare da esempio agli altri, ove possibile, è una nostra precisa responsabilità.

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©Copyright. Vietata la copia o riproduzione non autorizzata. Per contatti. Altri approfondimenti sul volume sono disponibili alla sezione dedicata al Potenziale Umano sul sito Studiotrevisani e sul blog Potenziale Umano, risorse per la crescita personale, formazione e coaching.

Prototipi cognitivi e Focusing in profondità. Differenziare il cambiamento esteriore dal cambiamento interiore

© Articolo a cura di: dott. Daniele Trevisani, Studio Trevisani Formazione, Consulenza e Coaching.

Testo estratto dal volume di Daniele Trevisani “Regie di Cambiamento”, Franco Angeli editore, Milano.

Fare cambiamento esteriore significa cambiare l’apparenza, l’esterno, il packaging della persona o del team (es.: indossare un’uniforme). Fare cambiamento interiore significa lavorare sui sistemi di credenze e sulle organizzazioni di “costrutti mentali” che l’individuo usa per orientarsi e prendere decisioni (es.: lavorare sulla costruzione di alcuni valori di fondo comuni e condivisi).

Ho denominato “prototipi cognitivi” i costrutti significativi che l’individuo usa per compiere le proprie operazioni mentali di decisione, percezione e valutazione. I prototipi sono sistemi intrecciati tra credenze, valori, opinioni, atteggiamenti, che sono distinguibili e riconoscibili analizzando i comportamenti e le manifestazioni esterne delle persone in azione (people-in-action). Sono anche riconoscibili scandagliando il flusso del discorso emesso dal soggetto (talk-in-action).

Osservare l’azione mentre accade (people-in-action), o il discorso mentre fluisce (talk-in-action), se si possiedono lenti di osservazione adeguate, permette di scorgere distintamente i prototipi attivi.

Esempio di alcune “punte di iceberg” di prototipi culturalmente riconoscibili sul fronte professionale sono:

  • “più ti impegni e più avrai risultati”;

  • “l’individuo deve farcela da solo”;

  • “il mondo è pieno di pericoli”;

  • “puoi impegnarti quanto vuoi ma se non sei fortunato non servirà”;

  • “devi dimostrare sempre quanto vali”;

… ogni altra organizzazione significativa di credenze che può prendere forma di “messaggio genitoriale” o “messaggio culturale”.

Parliamo di “punte di iceberg” o “microeruzioni” poiché queste affermazioni sono solo una manifestazione esteriore (una piccola eruzione di lapilli) rispetto al vulcano che li produce, e il magma sottostante è molto più ampio e voluminoso di quanto emerge dalla singola frase.

I prototipi sono appresi dall’ambiente circostante, e in molti casi vengono successivamente riorganizzati dall’individuo stesso, mixandoli con prototipi pre-esistenti. Uno dei primi luoghi in cui si creano i prototipi culturali è la famiglia, che si innesta nel sistema più ampio della cultura di appartenenza.

La famiglia e la cultura di appartenenza sono un grande repertorio di prototipi dai quali l’individuo attinge, a volte senza troppa consapevolezza o capacità di selezione.

Le ricerche sulla terapia psicologica evidenziano l’utilità di capire come le persone assorbano cultura dalla famiglia di provenienza, e come portino con se inconsapevolmente questo bagaglio1.

Chiunque può essere addestrato praticamente e sensibilizzato culturalmente nel riconoscere i prototipi che emergono nella conversazione, tramite le tecniche proprietarie Prototype Detection Techniques (PDT) da noi sviluppate e inserite nel metodo HPM (Human Performance Management).

Allo stesso tempo, chiunque può imparare a schermarsi dai prototipi cognitivi negativi che altrimenti vengono assimilati inconsapevolmente, o dai prototipi negativi che circolano in una organizzazione o in un team e ne riducono la performance.

La formazione, il coaching, lo sviluppo organizzativo, quando operano in profondità, sono fortemente finalizzate a riconoscere, smontare e ricomporre i prototipi che le persone utilizzano quotidianamente.

Riflessioni operative:

  • riconoscere i prototipi mentali (combinazioni tra credenze, atteggiamenti, valori, ideologie) da cui il soggetto attinge per prendere decisioni e attuare i propri comportamenti;

  • capire a quale livello del prototipo si può agire e con quali tecniche mentali e comunicazionali (es.: dimostrazioni, sollecitazione di dissonanze, reality check);

  • valutare con quali nuovi prototipi si intende lavorare (sostituzione dei prototipi) e come schermarsi o proteggersi da prototipi controproducenti.

Dopo aver sviluppato la capacità di riconoscere i prototipi (PDT, Prototype Detection Technique), è necessario quindi approfondire la capacità di schermarsi dai prototipi e filtrarli nella vita quotidiana, decidendo attivamente quali debbano rimanere e quali debbano essere rimossi dagli schemi cognitivi che circolano nella vita personale o professionale.

I prototipi cognitivi, in altre parole, rispondo a logiche di evoluzione e non sono da considerare agenti fissi e irremovibili, o non modificabili.

1 Pare, D. A (1996), “Culture and Meaning: Expanding the Metaphorical Repertoire of Family Therapy”, in: Family Processes, 1996 Mar; 35(1):21-42.

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