I 9 Segreti di Musashi e lo spirito dei Samurai per la vita di ogni giorno

… quando si pensa ad un Segreto…  spesso è qualcosa di molto semplice

Di: dott. Daniele Trevisani  – Fulbright Scholar, Formatore Aziendale esperto in Potenziale Umano. Maestro ed esperto in Psicologia e Formazione per le Arti Marziali e di Combattimento. Sensei 8° Dan Sistema Daoshi – Gruppo Facebook Praticanti di Arti Marziali e Sport di Combattimento in Italia

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© Articolo elaborato dall’autore, con modifiche, dal volume “Il Potenziale Umano” di Daniele Trevisani, Franco Angeli editore, Milano. Approfondimenti del volume originario sono disponibili anche al link www.studiotrevisani.it/hpm2

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© Daniele Trevisani

I Segreti Semplici nascosti nel Libro dei 5 Anelli

Musashi era un Samurai. In Giappone è considerato il più grande di tutti i Samurai mai vissuti. Ha avuto il suo primo combattimento per la vita e la morte a 13 anni, un Samurai esperto voleva vendicarsi e ucciderlo.

Vendicarsi di cosa, su un 13enne? Vendicarsi, per una disputa avuta con il padre di Musashi, uccidendo il figlio. A lui non gli rimase che combattere.

Musashi uccise il Samurai esperto con un bastone trovato lungo la strada. Un bastone contro una spada, usato da un ragazzino, contro un Samurai esperto.

Da allora ebbe decine e decine di duelli, tutti per la vita, e mai per gioco, duelli nei quali venne affrontato anche da 10 persone contemporaneamente, che volevano sfidarlo per diventare famose o alle quali la sua presenza dava fastidio. Li uccise sempre tutti, senza nemmeno guardarli, e senza vantarsene, proseguendo per la sua strada.

Nonostante quello che i benpensanti possono rapidamente pensare e giudicare, non era un violento, non fu mai né aggressivo né prepotente con nessuno, ma semplicemente, come Ronin (Samurai senza padrone), difendeva la sua libertà da chi lo voleva uccidere, in un momento del Giappone Medioevale nel quale non vi erano scelte: nei combattimenti, o si uccideva o si veniva uccisi. Quelle erano le regole. Fu tra l’altro uno dei più grandi pittori Giapponesi…

Per noi, oggi risulta difficile pensare che un pugile professionista, un kickboxer o un karateka possa essere anche Poeta o Filosof, ma in realtà il “viaggio” vero di ricerca di un praticante Marziale non è mai limitato, se interpretato in modo corretto, e si estende ad ogni campo e disciplina…

Musashi ne è un esempio per tutti, e per sempre.

Il suo segreto era un abito mentale. Quandos i considerò vecchio, si ritirò in una grotta e scrisse i suoi Segreti. Nove segreti semplici, assieme ad un libretto di qualche decina di pagine “Il Libro dei 5 Anelli”, affinché si tramandassero.

Ne vorrei parlare perché oggi – di fronte alle sfide e ai problemi veri del pianeta –  di fronte alle ingiustizie e prepotenze, alle arroganze, alle cattiverie – molti non reagiscono, come fece Musashi, ma si nascondono da vigliacchi, sperando che qualcun altro, in un futuro non determinato, se ne faccia carico. Non si rendono conto che i problemi non affrontati oggi ricadranno sui nostri figli entro poco tempo.

Allora, è bene parlare di chi si impegna oggi, per produrre un contributo nelle attività umane, nello sport e fuori dallo sport, nella arti marziali ma anche nella vita, nella società, nel dare un futuro ai ragazzi, nell’insegnare qualcosa dentro e fuori le palestre.

L’insegnamento deve assumere un preciso abito mentale.

È l’assetto del guerriero, del Samurai, del combattente, del ricercatore concentrato, del missionario che crede in una causa. Di chi non si lascia distrarre dalle cose futili e dai valori di plastica.

È l’atteggiamento focalizzato di chi desidera ottenere qualcosa che reputa importante e – durante l’esecuzione – non si lascia distrarre da altro. Di chi ha un valore e lotta per esso. Di chi fa della causa una parte di sé.

Non riguarda solo  enormi imprese, ma anche e soprattutto la vita di ogni giorno. Il più grande Samurai di ogni tempo, Musashi[1], così descrive l’abito mentale di chi vuole intraprendere la vita del Samurai: si tratta di segreti davvero semplici, ma per questo assolutamente attuali:

Chi voglia intraprendere la via dell’Hejò (strategia)

tenga a mente i seguenti precetti.

  • Primo: Non coltivare cattivi pensieri.
  • Secondo: Esercitati con dedizione.
  • Terzo: Studia tutte le arti.
  • Quarto: Conosci anche gli altri mestieri.
  • Quinto: Distingui l’utile dall’inutile.
  • Sesto: Riconosci il vero dal falso.
  • Settimo: Percepisci anche quello che non vedi con gli occhi.
  • Ottavo: Non essere trascurato neppure nelle minuzie.
  • Nono: Non abbandonarti in attività futili[2].

Se li rileggiamo, e vi chiedo di farlo adesso… a caldo…  noterete, una cosa: è qualcosa di tremendamente attuale, di tremendamente semplice. E’ soprattutto, di una pulizia assoluta.

Per questo motivo, ho deciso come sviluppatore del Sistema Marziale DaoShi, di mettere questi principi alla base di chiunque pretenda un giorno di definirsi insegnante di Arti Marziali o di Sport di Combattimento nel Sistema Daoshi. Chi insegna solo a menare le mani e non fa crescere le menti non è degno di essere chiamato Maestro e nemmeno di insegnare nel mio nome…. E’ una posizione radicale ma almeno è chiara. 

Ma torniamo a Musashi.

È eccezionale notare come anche oggi questo abito mentale sia dotato di enorme suggestività per chi intende sviluppare il proprio potenziale. Ci parla, infatti, di un atteggiamento di fondo.

  • È l’atteggiamento di serietà con cui un calciatore professionista rimane persona umile, cura alimentazione e riposo, rispetto al divo del calcio che assume atteggiamenti da star e si presenta tardi agli allenamenti.
  • È lo spirito di una ragazza che decide di sputare (esatto, sputare) sul modello proposto dai media di cosa sia una ragazza “arrivata” (fotomodella,  star televisiva, protagonista di reality show, anoressica, o bambola da chirurgo plastico) e piuttosto si impegna nello studio, in una professione utile, o in campo sociale, mandando a quel paese il modello che fa coincidere carriera con arcata dentale, natiche e scollatura.
  • È il coraggio di un ricercatore che intraprende vie di ricerca e sperimentazione inusuali ma dalle quali pensa di poter dare una aiuto al mondo, piccolo o grande, anche andando contro i baroni accademici e lo status quo.
  • È la saggezza del lottatore che cura attentamente il suo recupero prima di gettarsi in una nuova battaglia, consapevole del fatto che se non avrà riposato abbastanza non potrà sostenere molte battaglie e si brucerà.
  • È la passione di chi si impegna per una causa, fatica, fa rinunce ma non le rimpiange, e si sacrifica per qualcosa di cui forse non vedrà nemmeno i frutti in vita.

Ma non tutto è solo sacrificio. Le performance sono anche contribuzione, gioia, celebrazione, divertimento, piacere, il gusto di fare qualcosa di importante, essere parte di qualcosa, di lasciare un segno, di compiere imprese assieme a qualcuno e fare team. O la voglia di essere ciò che possiamo essere.

I veri performer sanno anche celebrare i propri risultati e vivere a pieno.

Ciascun precetto di Musashi si riferisce anche oggi ad una o più aree della psicologia delle performance e mantiene una validità assoluta:

Un approfondimento e una riflessione sui 9 Segreti Semplici di Musashi

Primo: Non coltivare cattivi pensieri. L’esercizio di un atteggiamento mentale positivo, il pensiero positivo, la concentrazione su ciò che di buono e utile vogliamo ottenere, allontanarsi da pensieri negativi o dal male; la ricerca di quello che oggi chiamiamo uno “stile cognitivo” efficace.

Secondo: Esercitati con dedizione. Oggi chiamato training, formazione, tecniche di allenamento e addestramento, e soprattutto, la necessità del performer di applicarsi in un active training, cioè in esercitazioni attive e non solo analisi teorica, e farlo con dedizione, nel tempo, e con continuità.

Terzo: Studia tutte le arti. L’approccio enciclopedico, la contaminazione positiva che deriva dall’andare fuori dai propri recinti e studiare le cose più disparate, interessarsi anche di ciò che altre discipline indagano, il contrario della chiusura in un recinto professionale o disciplinare, male odierno, il contrario delle sette, e della cultura dell’egoismo.

Quarto: Conosci anche gli altri mestieri. La capacità di muoversi ed agire anche in campi esterni, l’allargamento del proprio repertorio professionale, sapersi muovere anche fuori dal proprio campo di azione limitato, essere capaci anche in altre abilità e professioni, spaziare, non chiudersi.

Quinto: Distingui l’utile dall’inutile. Concetto similare a quello che nel sistema HPM chiamiamo Retargeting Mental Energy, o ricentraggio delle energie mentali, ciò che permette alle persone di capire veramente cosa merita il proprio impegno e cosa non lo merita, dove centrarsi o ricentrarsi nel proprio focus di attenzione, e quindi verso cosa direzionare le energie personali.

Sesto: Riconosci il vero dal falso. Coltivare le capacità di analisi, la percezione pura e decontaminata da preconcetti e distorsioni, il bisogno di verità, il bisogno di pulizia psicologica, il bisogno di sviluppare le capacità di riconoscimento (detection) indispensabile ad esempio in chi svolge il mestiere di negoziatore o di comunicatore, o in chi guida le persone (leader) o in chi lavora in gruppo (team working). Ed ancora, il bisogno di distinguere fatti da opinioni, teorie accertate da ipotesi, affermazioni personali da idee condivise.

Settimo: Percepisci anche quello che non vedi con gli occhi. La percezione è il fenomeno oggi più centrale in molte forme di psicologia, e comprende sia la propriocezione (capacità di percepire se stessi), che la percezione ambientale. Il settimo precetto di Musashi indirizza verso abilità di percezione aumentata, disambiguamento dalle illusioni percettive, sviluppo della sensibilità umana e sensoriale, ricerca di significati e quadri di analisi (Gestalt), e il potenziamento delle facoltà di osservazione. Tratta quindi di una “percezione allargata”, opposta ad una chiusura percettiva.

Ottavo: Non essere trascurato neppure nelle minuzie. Il bisogno di entrare nelle micro-competenze, la ricerca dell’eccellenza, l’abbandono di un atteggiamento di pressapochismo e banalizzazione. Attenzione ai dettagli che contano, assunzione di un atteggiamento di amore per quello che si fa e per come lo si fa.

Nono: Non abbandonarti in attività futili. Capire che il tempo è prezioso, e dobbiamo veramente decidere se abbandonarci ad uno squallido clone del modo con cui le persone comuni usano il tempo (copiare il mainstream), lasciarsi andare come bastoni sul corso di un fiume di qualunquismo, assecondare la piattezza di ciò che tutti gli altri fanno, o assertivamente prendere in mano il nostro tempo e decidere di farne qualcosa, allenarci, studiare, intraprendere, esplorare, scrivere, condividere, sperimentare nuove conoscenze; ed ancora, capire che esistono diversi macro-tempi, quello della produttività, dello studio, dell’auto-organizzazione, delle relazioni sociali, e quello del recupero, della meditazione, del relax, ma non esistono i tempi delle relazioni obbligate, lo spreco di tempo con persone piatte o arroganti o prepotenti, e vanno riconosciute e rimosse le attività di pura abulia o distruzione di sé.

Le lezioni di Musashi vengono da un performer che ha passato la vita a sfidare la morte, e hanno un significato odierno assoluto.

È ancora più incredibile notare come già nel 1600 Musashi concentrasse tutta la sua analisi su aspetti di enorme attualità: sinergia tra corpo e mente, correlazione tra preparazione fisica e mentale, il fatto che la preparazione o una vittoria sia una conquista personale e non un diritto da pretendere, e che prima si debba cercare un approccio mentale e strategico valido, e solo dopo vengono i dettegli operativi. Una lezione che nel terzo millennio moltissimi sportivi e manager devono ancora imparare.

Quando si dedicano assiduamente tutte le proprie energie all’Hejò e si cerca con costanza la verità è possibile battere chiunque e ovviamente raggiungere la supremazia, sia perché si ha il pieno controllo del proprio corpo, grazie all’esercizio fisico, e sia perché si è padroni della mente, per merito della disciplina spirituale. Chi ha raggiunto questo livello di preparazione non può essere sconfitto[3].

Dobbiamo oggi riflettere sul significato profondo che queste parole assumono: dedizione, ricerca della verità, pulizia spirituale, sono il vero messaggio di fondo. La ricerca della supremazia e della vittoria appartengono ad una realtà medioevale, vengono dall’essere nati in un certo momento storico dove questo significava vivere o morire. Se, in una mattina del 1600, qualcuno si fosse presentato a noi con una spada per ucciderci, sarebbero state drammaticamente importanti anche per noi.

Oggi i nemici veri non portano spade ma, là fuori, si aggirano ringhiando.

Si chiamano miseria, ignoranza, ipocrisia, prepotenza, arroganza, dolore esistenziale, fame, violenza, bambini che soffrono, nepotismi, corruzione, sistemi clientelari – e soprattutto- fonte di ogni male, l’incomunicabilità.

I nemici possono essere anche dentro: presunzione, chiusura mentale, perdita di senso, perdita di stima in sè, perdita di valori, perdita di orizzonti, chiusura verso nuovi concetti, auto-castrazione, smettere di sognare o credere in qualcosa, chiusura della propria prospettiva temporale in orizzonti sempre più brevi e limitati, vivere solo per se stessi.

Contro questi nemici gli insegnamenti di Musashi, e lo spirito guerriero che li anima, hanno ancora enorme senso e validità.

 

Respirare ogni giorno a pieni polmoni uno spirito guerriero per fini positivi è un abito mentale. Alzarsi con questo spirito, andare a dormire con questo spirito, risvegliare gli archetipi guerrieri e direzionarli per costruire, è una sfida nuova, entusiasmante, che fa onore al dono di esistere.

© Daniele Trevisani, articolo elaborato con modifiche dal volume “Il Potenziale Umano” (Franco Angeli editore)

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Note sull’autore:

dott. Daniele Trevisani (www.danieletrevisani.com), Fulbright Scholar, consulente in formazione aziendale e coaching (www.studiotrevisani.it) insignito dal Governo USA del premio Fulbright per gli studi sulla Comunicazione nel 1990, è Master of Arts in Mass Communication alla University of Florida e tra i principali esperti mondiali in Sviluppo del Potenziale Umano.

In campo marziale e sportivo, è preparatore certificato Federazione Italiana Fitness, praticante di oltre 10 diverse discipline, Maestro di Kickboxing, Sensei (8° Dan DaoShi® Bushido), formatore di atleti e istruttori di Muay Thai, Kickboxing e MMA. E’ stato agonista negli USA nei trofei di Karate Open Interstile.

Formatore e ricercatore in Psicologia e Potenziale Umano, è consulente NATO e dell’Esercito Italiano. Laureato in Dams-Comunicazione, è inoltre specializzato in Psicometria all’Università di Padova.

Ha realizzato docenze in oltre 10 Università Italiane ed estere, ed è il tra i principali esperti italiani nella ricerca sul potenziale umano, nella formazione di manager, di istruttori e trainer per le discipline marziali e di combattimento.


[1] Miyamoto Musashi, 1584-1645, giapponese, considerato nelle arti marziali come il più grande Samurai vissuto in ogni tempo. Ebbe il primo duello mortale a 13 anni, e vinse. Vagò per il Giappone come Ronin (guerriero errante) per anni, battendosi per sessanta volte ottenendo sempre la vittoria, lottando anche contro più avversari contemporaneamente o superando imboscate e duelli con decine di avversari. A 50 anni si ritirò per dedicarsi allo studio, alla letteratura e ad altre discipline artistiche risultando un maestro in molte di esse. Nel­la pittura, nella calligrafia, le sue opere oggi fanno parte del patrimonio artistico giapponese. A 60 anni si ritirò in una grotta per scrivere il suo Manuale. In Giappone oggi è leggenda.

[2] Musashi, Myamoto (1644), Il libro dei cinque anelli (Gorin No Sho), edizione italiana Mediterranee, Roma, 1985, ristampa 2005, p. 61.

[3] Ivi, p. 62.

Preghiera per il Grande Spirito. Un approccio marziale alla vita

Preghiera per il Grande Spirito

Di Daniele Trevisani (www.danieletrevisani.com ) – esperto in Potenziale Umano e Formazione per le Arti Marziali e di Combattimento

© Articolo elaborato dall’autore, con modifiche, dal volume “Il Potenziale Umano” di Daniele Trevisani, Franco Angeli editore, Milano. Approfondimenti del volume originario sono disponibili anche al link www.studiotrevisani.it/hpm2

…e  tu a cosa stai dedicando la vita? un approccio Marziale alla vita quotidiana

Tatanka Mani (“Bisonte che Cammina”, 1871-1967) era un grande Capo Indiano. Nella sua “Preghiera per il Grande Spirito” – che puoi leggere alla fine di questo brano – ci chiede se siamo pronti ad arrivare ad incontrare il Grande Spirito, nel momento della morte, con le mani pulite, lo sguardo alto, e senza vergogna. Vediamo di approfondire qualche concetto utile per chi pratica Arti Marziali e Sport di Combattimento

Si è fighter o praticanti non solo nelle ore in cui ci si allena. Un approccio marziale permea la vita. Il vero obiettivo è diventarlo sempre, e tenere sempre alta la capacità di discernere vero e falso, amore e odio, bene e male, in ogni parte della vita. E questo significa anche apprendere a distinguere il momento della tensione dal momento del rilassamento, la carica di energie e la scarica, il pieno e il vuoto.

È il gesto quotidiano dell’alzarsi con il quale iniziamo a rendere omaggio ad un viaggio che a noi è stato permesso, e a tanti è stato negato. Di questo omaggio, la vita, dobbiamo essere fieri.

Il vero nemico contro combattere assieme, il collante dei valori, è la lotta alle divisioni, o il considerarsi i migliori, o non rispettare il lavoro che fanno gli altri sport, altre discipline.

Guardiamo a cosa ci unisce, alla passione per lo sport, per le arti, alla passione per la parte ancestrale e pulsionale dell’essere umano che si esprime in una lotta sana, pulita, in un gesto atletico o marziale, in onore e rispetto, …in amore per la vita e sudore in palestra e nel Dojo, sul ring o sul tatami che sia.

Esatto contrario della violenza vera, dell’arroganza, della prepotenza, della vigliaccheria, dell’apatia e della mancanza di senso nella vita.

Diffondiamo questo messaggio e stiamo uniti nel rispetto di ciascuna differenza, di ciascuna identità, di ogni pratica, uniti nel sapere che nelle arti marziali e negli sport da ring c’è una forma di emancipazione fondamentale dell’essere umano.

E riflettiamo davvero su chi siamo. Siamo persone che vogliono aiutare gli altri a raggiungere obiettivi di vita, e non solo sportivi.

Energie e capacità mettono le persone in grado di dirigersi verso i propri obiettivi o scopi, siano essi già inquadrati come progetti con un output preciso, o semplici idee ispiratrici, ancora non definite o ben focalizzate.

I tre grandi piani di lavoro (energie personali, competenze, obiettivi), sono variabili tecniche, ma dietro ad esse si trova uno sfondo umanistico enorme, dalle grandi implicazioni, che vogliamo esaminare.

Ottenere risultati e tagliare i propri traguardi è un tema importante per l’individuo, per un gruppo (team sportivo, team aziendale), e per un’intera organizzazione o azienda, persino per una nazione o l’intera umanità.

La quantità di implicazioni psicologiche che si ritrovano dietro ai risultati, tuttavia, è impressionante. Solo chi li ha faticati in prima persona è consapevole dello sforzo, delle energie mentali e motivazionali spese per attività che apparivano, a prima vista, banali o puramente tecniche.

A volte non sono gli obiettivi ad essere difficili, ma le persone.

Ad esempio, la prestazione in un esame dipende sia dalla conoscenza della materia (aspetto tecnico) ma anche dalla capacità di gestire emozioni, ansia e attesa, essere comunicativi e mentalmente presenti (componente psicologica), e questa è ben più difficile da affrontare che non lo studio di una materia.

Anche nello sport, vincere una partita prevede la capacità di creare un team vincente, lavorare ai climi psicologici del gruppo, sostenere le individualità, creare uno spirito di squadra. Chi dimentica questo perde.

Lo sanno bene le nazionali forti che possono subire sconfitte pesanti e umilianti anche da squadre di paesi semisconosciuti, se affrontano l’impe­gno con “sufficienza”, o si trovano nella condizione psicologica sbagliata, mentre gli avversari sono iper-motivati e affamati di vittoria.

Anche in azienda il fuoco della motivazione e della passione, e le qualità mentali, fanno la differenza: un progetto davvero innovativo prima si pensa, poi vi si investe. La qualità del pensiero viene prima.

Una distinzione fondamentale consiste nel riconoscere che esiste una matrice di obiettivi, e questa parte da risultati molto focalizzati (micro-goal, come rimanere positivi nei vari momenti di un’attività, anche se impegnativa), passa per obiettivi più ampi (es.: gestire bene un progetto cui teniamo), sino a salire agli obiettivi esistenziali (Life Objectives), come il bisogno di vivere a pieno la vita, e la ricerca della felicità.

In ciascuno di questi stadi vi sono catene da spezzare e cose da imparare.

Secondo questa visione, vivere pienamente significa ben più che esistere.

Questo ha ripercussioni non piccole sul concetto stesso di performance e di potenziale umano. Come sostiene Oscar Wilde:

La cosa più difficile a questo mondo? Vivere! Molta gente esiste, ecco tutto

(Oscar Wilde).

Quindi, fissiamo immediatamente un concetto: si possono ottenere performance senza lavorare sul potenziale umano seriamente (es.: doping, o comprare un risultato) ma questo non ci interessa, non è il nostro fine. Anzi, questi pseudo-risultati sono il polo negativo, il male, le bugie, le false promesse, ciò da cui vogliamo stare lontani.

Il lavoro che ci apprestiamo a fare infatti è quello allenante, preparatorio, formativo, costruttivo, il dare forma (Modeling) al potenziale e alle prestazioni tramite un lavoro serio, fatto di continuità, tecnica, strategia, sudore.

Due elementi fondamentali di una prestazione umana sono: (1) gli scopi (obiettivi) e (2) il loro grado di raggiungimento (nullo, intermedio, totale).

Rispetto agli scopi, ci concentriamo soprattutto su quelle prestazioni o performance che hanno un senso di contributo, di liberazione, di espressione, di emancipazione. In altre parole, le prestazioni non solo meccaniche.

Rispetto al grado di raggiungimento, consideriamo che esso sia una funzione strettamente dipendente dal tipo di potenziale raggiunto (dalla persona, dal team, dall’organizzazione), e che per l’eccellenza bisogna lavorare sulla crescita strutturale più che sui risultati immediati. È la nostra visione.

È più importante insegnare ad un atleta a gestirsi, a non bruciarsi, ad avere una carriera e una vita, a trovare equilibri, che non spremerlo e gettarlo per una singola gara o stagione.

Lo stesso per avere manager e professionisti preparati in azienda: stiamo o no creando un sistema che li formi, una palestra di formazione aziendale? Se non abbiamo un programma serio in merito, non lamentiamoci se dovremo richiamare i pensionati. In ogni squadra seria si coltiva un vivaio e un settore giovanile, e questo vale anche in azienda. Molti vogliono risultati senza investire, e spremono l’azienda, ma non fanno crescere le persone.

Ancora una volta, vogliamo lavorare alle condizioni che permettono di ottenere i risultati quando li desideriamo, senza attendere manna dal cielo o la fortuna. Nelle arti marziali e sporto di combattimento vale lo stesso principio.

Il nostro approccio considera le performance vere non solo come atti tecnici, ma espressioni di libertà, applicazioni di una volontà emancipata di andare oltre, di scegliere (Free Will), un concetto che sta entrando finalmente nella letteratura anche manageriale:

La libera volontà è l’abilità di un agente di selezionare un’opzione (comportamento, oggetto, etc.) da una serie di alternative[1].

Non dimentichiamo lo spirito di fondo, che è sempre quello di un messaggio positivo, ciò che un padre vuole trasmettere ad una figlia, o figlio, o al prossimo, rispetto alle energie e alla vita: ogni volta che ti svegli, pensa positivamente a cosa fare di buono oggi. Ogni volta che vai a dormire, rivedi le cose buone accadute, sensazioni positive che avresti dato per scontato. Poi, pensa a cosa ti piacerebbe fare di buono domani, cosa ti renderà felice, che contributo puoi dare a te e agli altri, in cosa puoi applicarti bene. Fai cose che ti daranno energie, riduci quelle che ti impoveriranno spiritualmente e fisicamente.

Non lasciarti spegnere. Ogni volta che sei triste chiediti se la tristezza ti merita o se puoi dirottare le tue energie verso qualcosa di positivo.

Ogni volta che guardi avanti cerca il bene, e quando ti guarderai indietro sarai orgogliosa di te. Questo è rendere omaggio al dono di esistere.

Agire, provarci, in modo da potersi guardare indietro con senso dell’onore, è luce, un bisogno che traspare in ogni storia vera, in ogni cultura umanistica e spirituale, come si intravede bene in questa testimonianza dagli Indiani d’America:

“Oh Grande Spirito, la cui voce ascolto nel vento,
il cui respiro dà vita a tutte le cose.
Ascoltami; io ho bisogno della tua forza e della tua saggezza,
lasciami camminare nella bellezza,
e fa che i miei occhi sempre guardino il rosso e purpureo tramonto.

Fa che le mie mani rispettino la natura in ogni sua forma
e che le mie orecchie rapidamente ascoltino la tua voce.

Fa che sia saggio e che possa capire le cose che hai pensato per il mio popolo.
Aiutami a rimanere calmo e forte di fronte a tutti quelli che verranno contro di me.

Lasciami imparare le lezioni che hai nascosto in ogni foglia ed in ogni roccia.
Aiutami a trovare azioni e pensieri puri per poter aiutare gli altri.

Aiutami a trovare la compassione
senza la opprimente contemplazione di me stesso.

Io cerco la forza, non per essere più grande del mio fratello,
ma per combattere il mio più grande nemico: Me stesso.
Fammi sempre essere pronto a venire da te con mani pulite e sguardo alto.
Così quando la vita appassisce, come appassisce il tramonto,
il mio spirito possa venire a te senza vergogna”.

Preghiera per il Grande Spirito,

Tatanka Mani (Bisonte che Cammina) (1871-1967)

Note sull’autore: il dott. Daniele Trevisani (www.danieletrevisani.com), praticante di oltre 10 diverse discipline, è inoltre Maestro di Kickboxing, Sensei (8° Dan DaoShi® Bushido), formatore di atleti e istruttori di Muay Thai, Kickboxing e MMA, Formatore e ricercatore in Psicologia e Potenziale Umano, è consulente NATO e dell’Esercito Italiano, Master of Arts in Mass Communication, University of Florida. Insignito dal governo USA del premio Fulbright per i propri studi sulla comunicazione e potenziale umano. Ha realizzato docenze in oltre 10 Università Italiane ed estere, ed è il tra i principali esperti italiani nella ricerca sul potenziale umano, nella formazione di istruttori e trainer per le discipline marziali e di combattimento.


[1] Mick, D. Glen (2008), Degrees of Freedom of Will: An Essential Endless Question in Consumer Behavior, Journal of Consumer Psychology, 18 (1), 17-21.

Sulla differenza tra Arti Marziali e Sport di Combattimento

Arte Marziale e Sport

Contributo del Maestro Samuel Onofri

Direttore Didattico e fondatore del Kihon Aikibudo – http://www.kihon.it/

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Pubblico volentieri questo contributo del collega M° Onofri, su un tema caldo, che trovo raramente dibattuto, e penso sia una stimolo di riflessione straordinario, al di la di qualsiasi sia il proprio punto di vista personale. Un augurio di buona lettura, Dott. Daniele Trevisani www.studiotrevisani.com

Dopo aver dato un rapido sguardo su quelle che potremmo definire come le spinte originarie che hanno portato alla creazione delle principali Arti Marziali, è’ arrivato ora il momento di calarci nella realtà di oggi e di analizzare come si è evoluto e come viene percepito attualmente il concetto di Arte Marziale. Focalizzeremo soprattutto la nostra attenzione sulla differenza sostanziale che intercorre tra Sport e Arte Marziale, tentando di chiarificarne i caratteri distintivi.

Generalmente oggi siamo abituati ad associare qualsiasi attività che implichi un confronto fisico, o comunque lo studio di tecniche finalizzate allo stesso, come forme più o meno moderne di arte marziale. Che esse siano riconosciute come sport olimpici o che siano combattute in una gabbia piuttosto che su un ring o un tappeto; che vengano studiate in un tempio o in una palestra di aerobica, mettiamo tutto nel grande calderone delle Arti Marziali. Effettivamente vi è molta confusione in proposito, e sono cosciente del fatto che quello che sto per dire può disorientare o suscitare risentimento. Vorrei sottolineare quindi subito una cosa. Le considerazioni qui esposte non sono minimamente volte a sminuire in qualche modo ciò che non troverete definito come “arte marziale”, bensì mirano a fare chiarezza sul tema utilizzando dei dati di fatto scaturiti dall’applicazione pratica.

Iniziamo subito con il fare una distinzione tra attività che prevedono gare e non.

Tutto ciò che trova la sua finalizzazione in una gara necessita di regole ben precise, concepite al fine di evitare il più possibile incidenti, e consentire nel contempo la definizione di chi sia il vincitore. Quando si parla di combattimenti il tutto si traduce nell’utilizzo di diversi espedienti quali:

  • Utilizzo di protezioni
  • Tecniche consentite e proibite
  • Arbitraggi
  • Attribuzione di punteggi in base alla tecnica che si ritiene abbia raggiunto il bersaglio
  • Controlli sullo stato di salute dei combattenti, ecc.

Le arti marziali di contro sono nate, se vogliamo definire forse la motivazione primaria, dall’esigenza squisitamente pratica di sopravvivere ad uno scontro.

Nella sua accezione più cruda e senza considerare gli aspetti filosofici che ne scaturirono a posteriori, possiamo affermare che l’arte marziale era una ricerca continua di tecniche utili a restare vivi, il che coincideva sì con la vittoria ma, dal punto di vista individuale doveva essere, per ovvie ragioni, secondario. Nelle arti marziali originarie quindi non vi erano regole o arbitri, o considerazioni del tipo “oggi non mi sento di combattere e mi ritiro dal torneo…”, o “la giuria mi ha penalizzato perché era di parte..” , o “ ho la gamba che mi fa male, meglio rinunciare alle nazionali per prepararmi alle olimpiadi..” ecc. Ogni colpo era buono, ogni momento era buono, ogni contesto era buono e non c’era giusto o sbagliato, né corretto o scorretto, c’era solo vita o morte.

Con questo non voglio dire che le attività agonistiche siano meno “toste” di un’arte marziale definita tale. Anzi, come vedremo in seguito, sotto un certo punto di vista, ed allo stato attuale, potremmo dire il contrario, ma credo che sia importante non confondere le due cose.

Per approfondire e nel contempo rendere più chiari i concetti sopra esposti, credo che sia utile vedere le differenze dal punto di vista pratico facendo l’esempio del Karate e provando a comparare gli stessi momenti di un combattimento analizzati dal punto di vista marziale e da quello agonistico.

Momento Combattimento agonistico Combattimento marziale
Incontro I due contendenti si salutano vicendevolmente e rispettosamente davanti ad una giuria. Entrambi sanno perché sono lì e probabilmente già si sono visti altre volte, o almeno si conoscono sotto gli aspetti tecnici avendo assistito l’uno a gli incontri dell’altro. Il loro scopo è strappare punti e vincere. Due uomini si incontrano. Nessuno sa nulla dell’altro. Non sanno nemmeno se vi sarà uno scontro oppure si saluteranno con cortesia per poi non rivedersi mai più. In ogni caso, entrambe sono pronti a mettersi in guardia e si tengono a debita distanza.
Inizio L’arbitro, appurato che i due contendenti sono pronti ed in posizione, grida : “Ajime!”. Ha inizio il combattimento. Accennando un saluto di cortesia uno dei due uomini si avvicina all’altro accennando ad un inchino. L’altro risponde con la medesima attenta cortesia. Nell’attimo esatto in cui china la testa, però l’altro lo attacca furiosamente con un coltello mirando dritto al collo.
La guardia I due si muovono saltellando sul tatami, attenti a non uscire dal quadrato. L’attenzione dell’uno è completamente focalizzata sull’altro, e i loro movimenti sono sciolti. Sanno che qualunque cosa succeda vi sono ben tre arbitri, medici, pronto soccorso e protezioni, ma soprattutto sono certi di chi e dove sia il loro avversario, e che l’incontro ha una durata fissa, per la quale si sono allenati. L’uomo schiva il fendente allontanandosi e si mette in guardia stabile. Immediatamente la sua attenzione scandaglia la situazione esaminando vari aspetti in poche frazioni di secondo:

  1. Il luogo.
    Controlla cosa vi sia intorno a lui e se potrebbero esserci le condizioni per essere attaccati alle spalle da altre persone.
  2. Il terreno.
    Controlla se la superficie su cui si trova è irregolare o scivolosa, o vi siano ostacoli che gli possano impedire dei movimenti.
  3. Il sole.
    Controlla dove sia il Sole in quel momento. In base a quello deciderà dove muoversi onde evitare di ritrovarselo in faccia.

La sua attenzione non può essere focalizzata solo sul suo avversario perché sa che ce ne potrebbero essere degli altri, e le sue energie le risparmia perché non ha la minima idea di quanto durerà quella assurda situazione.

Scopo Vincere la medaglia, il titolo, il torneo, la coppa ecc. Uscirne vivo.
Obbiettivi tecnici. Ottenere dei punti entrando con dei colpi nella guardia dell’avversario, ma senza affondare, né toccare mai il viso (pena la squalifica). Se non andrà bene la prima tecnica, durante il combattimento ci sarà tempo e modo di rifarsi. Entrambe i combattenti sanno che non basterà entrare con dei colpi, che siano dati con il coltello o a mani nude. I corpi di entrambe sono inondati di adrenalina e non sentiranno né dolore né potenza. Se il colpo non viene portato in punti vitali, l’azione dell’altro non si arresterà ed il combattimento andrà avanti. E’ anche possibile che pur colpendo in un punto vitale, l’altro prima di cadere possa colpire a sua volta e ferire a morte (soprattutto se ha un’arma). Quindi bisognerà colpire con precisione chirurgica punti vitali e, nel contempo, stare molto attenti alla posizione nella quale ci si trova all’atto dell’esecuzione della tecnica e possibilmente allontanandosi immediatamente dopo il colpo.

In ogni caso il combattimento deve essere risolto il prima possibile.

Strumenti Per evitare incidenti, in ambito agonistico, si è deciso di eliminare i colpi più letali e pericolosi e conseguentemente, la rosa delle tecniche consentite è necessariamente limitata. Generalmente nei combattimenti agonistici di karate raramente si va oltre un paio di tecniche di braccia (che di solito sono giakutzuki e uraken) e tre o quattro tecniche di gambe (maegeri, mawashigeri, yokogeri, ushirogeri). Se si va a terra, l’arbitro interverrà, facendo riprendere dalla posizione iniziale, quindi non c’è bisogno di studiare particolari tecniche di caduta (ukemi) o tecniche di combattimento a terra (o da terra). In ambito marziale tutto è consentito, e quindi da tutto bisogna imparare a difendersi. Ogni tecnica può essere utilizzata e ogni strumento può servire a realizzarla, dal coltello al bastone, dal sasso alla polvere. In più i due combattenti, non conoscendosi, non hanno la minima idea del bagaglio tecnico dell’altro. Per sopravvivere bisogna padroneggiare ogni situazione.

Probabilmente nessuno li vedrà e in ogni caso raramente interverrà (onde evitare danni alla sua persona).

Le tecniche utilizzate non avranno nulla di spettacolare, ma saranno portate nella maniera più efficace possibile e nell’ottica del massimo risparmio di energie.

Questo piccolo esempio già ci propone una visione diversa della faccenda. Ovviamente le considerazioni di cui sopra possono essere applicate ad ogni combattimento agonistico, anche i famosi combattimenti senza regole, che apparentemente ci sembrano così veritieri, alla fine si svolgono sulle loro brave superfici piane e delimitate, hanno i loro assistenti, i loro arbitri ecc.

Vista così sembra che tutto fili e che sia lecito pensare che un’arte marziale propriamente detta, studi di fatto, aspetti infinitamente più complicati di uno sport da combattimento, e che sia dunque più difficile e rivolta a pochi “pazzi” eletti.

Ma, proprio in virtu del detto cinese:“ quando sei certo di un punto di vista, quello è il momento in cui lo devi cambiare”,le cose non stanno proprio così.

Il concetto è molto semplice. Un’Arte Marziale, per essere studiata con i presupposti che abbiamo appena espresso, non può prevedere combattimenti veri e propri in sede di allenamento. O meglio può prevedere surrogati che si avvicinano più possibile alla realtà, ma che non arriveranno mai, per ovvie ragioni, alla completa, cruda verità del combattimento per la vita e per la morte. Questa limitazione, in tempo di guerra, era ampiamente compensata dalle battaglie e dai duelli, nei quali si aveva modo di mettere alla prova “veramente” tutto lo studio e gli estenuanti allenamenti a cui si sottoponeva la classe guerriera. Con l’avvento dei periodi di pace, e ringraziamo il cielo per questo, questo genere di test estremi è venuto a mancare; al quesito che metteva in dubbio se fosse o no opportuno il continuare a studiare vecchi sistemi di combattimento, si aggiungeva, come se non bastasse, anche la questione di come continuare a studiare “veramente” l’arte marziale. Le risposte sono state molteplici. Molti, come abbiamo detto, hanno preferito buttarsi nell’agonismo, ritenendo indispensabile una qualche forma di scontro diretto, mediante il quale si potesse, effettivamente mettere alla prova la propria crescita tecnica, se pur consapevoli delle limitazioni a cui sarebbero andati incontro (vedi sopra). Altri hanno preferito una soluzione mista continuando a studiare kata e tecniche tradizionali, ma mettendosi comunque in gioco in qualche gara; altri ancora, in fine hanno scelto di continuare con il metodo tradizionale, aborrendo l’agonismo e coltivando la disciplina come anticamente veniva fatto. Per le prime due categorie vi erano dunque delle prove da affrontare contro avversari che certamente non avevano nessuna intenzione di soccombere o perdere, mentre le scuole che avevano scelto la terza opzione, non dovendosi “scontrare” con nessuno se non con membri della propria scuola, potevano, per così dire, stabilire le proprie regole e le proprie limitazioni in maniera del tutto indipendente ed autonoma. Sostanzialmente era il Maestro che stabiliva quale fosse la didattica per lui più conveniente e produttiva. Insomma il Maestro di una scuola tradizionale, rappresentava, per i suoi studenti, la Legge insindacabile.

Si ponevano a quel punto due problemi di fondamentale importanza. Il primo era che tale legge non poteva essere messa alla prova, dato che non erano previsti confronti con altre scuole (e altre leggi). Al massimo ci si incontrava, come succede tuttora, per dei seminari o degli allenamenti collettivi nei quali ci si scambiano tecniche e sudore evitando accuratamente critiche e confronti.

Il secondo, ma non ultimo, era che elementi come veridicità dei messaggi, efficacia delle tecniche, valore della didattica in termini di crescita degli studenti, interpretazione del messaggio originale della disciplina ecc., erano interamente affidati ad un singolo individuo: il Maestro appunto. Ora… fin quando il Maestro può considerarsi veramente tale (ed in seguito parleremo ampiamente anche su questo tema) tutto fila; i problemi si possono verificare quando la persona che insegna non possiede quel bagaglio di esperienza tale da poter affrontare certi temi con cognizione e con perizia, e va avanti per supposizioni o, peggio ancora per teorie lette o dette senza essersi preoccupato di testarle sulla propria pelle, il che è già pericoloso quando si tratta di tecniche, figuriamoci quando la materia in questione è l’etica o peggio le interpretazioni filosofiche di ciò che si sta studiando.

Anni fa lessi in un libro, di cui volutamente non cito né titolo né autore, un concetto singolare. L’autore affermava in sostanza che, dato che un particolare attacco circolare poteva essere parato in un certo modo, quella era la maniera più indicata di fronteggiare qualsiasi altro tipo di attacco circolare. Sulla carta tutto fila, dato che in termini di linee e di forze non apparivano grosse differenze, peccato che se poi si tentava di mettere in pratica la lezione, si finiva subito in infermeria. Con tutta probabilità l’autore, di cui, a parte queste piccole defaillance riconosco però il valore come scrittore, come storico e come ricercatore, aveva “dedotto”, in maniera teorica e logica, delle azioni che custodivano invece, nel loro svolgimento reale, molte sfumature e variabili che solo la pratica poteva evidenziare.

Di esempi del genere se ne potrebbero fare all’infinito, e in ogni caso torneremo sulla questione più avanti. Per il momento, tornando alla tema principale di questo paragrafo, mi sembra che ora possiamo essere nella condizione di affermare che non sempre, un’arte marziale studiata in maniera tradizionale e senza agonismo o incontri, possa effettivamente essere studiata in maniera seria ed esauriente, in quanto la sua didattica dipende essenzialmente da un solo Maestro e non può essere, di fatto messa alla prova in senso realistico. Ne consegue quindi che, di fatto a tutt’oggi si trovano molto più spesso elementi realistici e vicini alla tecnica originale in una competizione sportiva, che in una dimostrazione di uno stile tradizionale. Di contro l’agonismo esige anch’esso il suo scotto da pagare limitando per forza di cose le azioni e le tecniche originarie trasformandole ed adattandole alle finalità della vittoria, ben diversa (lo abbiamo detto) da quella della sopravvivenza. In proposito cito ancora un esempio che a mio parere può rendere chiaro il concetto. Tempo fa fu organizzata in Tailandia un confronto tra studenti di Kung Fu e Combattenti di Thai Box. Ora.. se andiamo ad analizzare singolarmente i due metodi di combattimento, risulta fin troppo chiaro che il Kung Fu sia estremamente più raffinato e complesso. Ricco di tecniche e sfumature, di stili che si intersecano e di escamotages, inganni e strategie. La Thai Boxe, di contro appare come uno stile rozzo, anche abbastanza grossolano nelle tecniche e nelle guardie. Bhe, volete sapere come è andata?….. Gli studenti di Kung Fu furono letteralmente massacrati dagli atleti di Thai Boxe. Il bello è che i praticanti di Kung Fu furono totalmente spiazzati dalla cosa e non si riuscivano a spiegare il perché di tale catastrofico esito. La risposta era semplice quanto potente: gli atleti di Thai Boxe avevano sì una tecnica più rozza, ma erano abituati a metterla in pratica veramente. Per loro un calcio preso era naturale come respirare, il sangue era pane quotidiano, la fatica la loro vita, la violenza la loro compagna. Gli studenti di Kung Fu, al contrario, pur avendo anni di allenamento durissimo anche loro alle spalle, avevano studiato con avversari immaginari o magari con bersagli inerti, senza mai cimentarsi veramente in un combattimento reale e dove i colpi si scambiavano senza sconti. La cosa incredibile è che, dopo quella manifestazione, tutti sono convinti che la Thai Boxe sia più efficace del Kung Fu, il che non è vero affatto. Il problema di quell’incontro, sono convinto che sia stato che agli studenti di Kung Fu siano stati consegnati nelle mani strumenti estremamente raffinati da subito, senza farli passare attraverso percorsi più semplici e diretti. In più i metodi insegnati loro, erano frutto di interpretazioni di tecniche e concetti, a loro volta interpretati da altri attraverso i secoli (sempre in tempo di pace) e, soprattutto, senza che nessuno li mettesse mai realmente alla prova. Tecniche che anticamente si erano dimostrate in battaglia armi micidiali, si erano trasformate, nel tempo, in movimenti eleganti ed armonici, ricchi di volteggi e pose plastiche veramente belli da vedere, ma completamente inefficaci se utilizzati in una situazione reale. Gli atleti di Thai Boxe, al contrario avevano strumenti più grossolani, ma continuamente messi alla prova sul ring e senza complimenti. Potremmo dire senza difficoltà che la Thai Boxe non si è scontrata con il vero Kung Fu, ma con un suo surrogato addolcito dal tempo.

Del resto, dove viene a mancare la sostanza, cresce la forma, e questo non è solo un problema che ha a che fare con le arti marziali, ma con tutte le cose che, non più applicate realmente, tendono ad essere eccessivamente teorizzate.

Attenzione però, non è assolutamente certo che i Thai Boxers tailandesi uscirebbero vivi da una situazione di reale pericolo, condita magari di coltelli e armi varie. Non preoccupatevi, una soluzione possibile c’è, ma ne parleremo in seguito, per ora continuiamo nell’analisi dell’Aikido seguendo il metodo Kihon.