Questioni di Resilienza: sapersi rialzare

Estratti sul tema “Resilienza” dal volume “Il Potenziale Umano” di Daniele Trevisani, Studio Trevisani, Franco Angeli editore, Copyright

Dal cap 2

I target delle attività di preparazione psicologica, le variabili su cui agisce, possono essere numerose, citiamo tra queste:

  • resilienza psicologica e resistenza allo stress;
  • forza emotiva e fragilità emotiva;
  • capacità di percezione;
  • capacità propriocettive (percezione dei propri stati interni);
  • capacità di analisi;
  • capacità di concentrazione;
  • capacità di focalizzazione;
  • capacità di rilassamento;
  • capacità di meditazione;
  • capacità relazionali (es.: empatiche e assertive).

Entra in campo quindi un tema fondamentale, quello della costruzione psicologica e dei suoi metodi. In campo sportivo questo tema è stato accettato e riconosciuto dai trainer e coach più evoluti, come nella testimonianza che segue, mentre viene ignorato dai più.

Rimanendo nella metafora sportiva, la testimonianza seguente viene dall’allenatore di una delle più forti squadre al mondo tra le discipline estreme di combattimento, Chute Boxe e Valetudo (una tecnica in cui sono ammessi i colpi e tecniche provenienti da più arti marziali, condotti realmente e sino al ritiro di uno dei contendenti o al KO).

Rudimar Fedrigo conosce gli ingredienti che hanno portato al successo la sua scuola: “la disciplina, il rispetto, l’amicizia, ecco come conduco la mia accademia da 25 anni. Quando si è il leader bisogna essere fermi e anche duri con i propri atleti. Ma questo non impedisce di essere presenti quando loro hanno bisogno, per aiutarli nei loro problemi personali, sentimentali, ecc. Preparare dei combattenti curando solo ed unicamente la parte fisica e tecnica significa prepararli male. L’aspetto psicologico per me, è ugualmente importante se non di più[1].

E quanto più il gioco si fa duro e competitivo, tanto più il fattore psicologico è in grado di fare la differenza. Questo non solo nello sport, ma anche e soprattutto nella vita quotidiana, o manageriale, che nei contesti odierni pone sfide estremamente difficili per chi la vive a pieno, senza ritirarsi né sfuggirla.


[1] AA.VV. (2004), La Chute Boxe sarà più dura, Reportage da “Fight Sport”, n. 2, ottobre 2004, p. 44.

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Estratti sul tema “Resilienza” dal volume “Il Potenziale Umano” di Daniele Trevisani, Studio Trevisani, Franco Angeli editore, Copyright

La rana nella pozzanghera… (storie di ribellione e mancata ribellione)

Articolo di Daniele Trevisani, Copyright 2010, Studio Trevisani. Anticipazione editoriale dal volume Il Potenziale Umano.

… ogni essere umano possiede dentro di sè una energia che tende alla realizzazione di sè, e – dato un clima psicologico adeguato – questa energia può sprigionarsi e produrre benessere sia personale che per l’intero sistema di appartenenza (famiglia, azienda, squadra).

Oltre al clima psicologico favorevole alla crescita, è importante  la possibilità di non essere soli nel percorso e avere compagni di viaggio (condizione 1). Una condizione ulteriore indispensabile (condizione 2) è sapere dove muoversi, verso dove andare, poter accedere ad un modello o teoria che guidi la crescita.

Con questa duplice attenzione, lo sviluppo personale diventa un fatto perseguibile, non più solo un sogno o un desiderio.

Una persona, un’azienda, un atleta, una squadra, sono organismi in evoluzione che spesso anziché evolvere in-volvono, o implodono, si consumano.

Tutti desideriamo la crescita e il benessere ma a volte ci troviamo di fronte a risultati insufficienti (sul lavoro, o nei rapporti di amicizia, o nel nostro percorso di vita) e a stati d’animo correlati di malessere, sfiducia o calo di autostima.

Dunque, bisogna agire. Ma ancora più interessante – prima di affrontare il come agire – è capire quando nasce il bisogno. Alcune domande provocative:

  • Quali sono i limiti inferiori, i segnali che ci informano del fatto che è ora di cambiare, che qualcosa non va, o che vogliamo essere migliori o anche solo diversi? Dobbiamo aspettare di raggiungerli o possiamo agire prima?
  • Quando prendiamo consapevolezza del bisogno di crescere o evolvere?
  • Da cosa siamo “scottati”, quali esperienze o fatti ci portano a voler evolvere? Quali sono i critical incidents che ci segnalano che è ora di una svolta? Dobbiamo attenderli o possiamo anticiparli?

critical incidents possono essere eventi drammatici o invece di piccola portata, ma comunque significativi, come lo svegliarsi male e non capire perché. Può trattarsi di un accadimento che ci ha riguardato e non riusciamo ad interpretare, non riusciamo a capire cosa sia successo. Possono essere casi di vita come la perdita di un lavoro, o una trattativa andata male, una gara persa, un litigio, una relazione che non va, o anche solo la difficoltà a raggiungere i propri obiettivi quotidiani. Può anche trattarsi di una malattia fisica o sofferenza psicologica. In ogni caso, la vita ci presenta continuamente sfide che non riusciamo a vincere, e alcune di queste fanno male.

Spesso rimanere “scottati” (da un’esperienza o stimolo) è indispensabile per acuire lo stato di bisogno, ma – come dimostrano gli studi sulla fisiologia –  l’organismo degli esseri viventi si abitua anche a stati di sofferenza cronica e finisce per considerarli quasi accettabili. Finisce per conviverci.

La metafora della rana nella pozzanghera, vera o falsa che sia, è comunque suggestiva: leggende metropolitane sostengono che una rana che si tuffi in una pozzanghera surriscaldata dal sole reagisca immediatamente e salti via. La rana scappa dall’ambiente inospitale senza bisogno di complicati ragionamenti. D’estate, una rana che sia nella stessa pozzanghera – la quale progressivamente si surriscalda al sole – non subisce lo shock termico istantaneo e può giungere sino alla morte, poiché – grado dopo grado – il peggioramento ambientale procede, in modo lento e costante, e non si innesca lo shock da reazione.

Non ci interessa la biologia delle rane, se la leggenda sia vera o falsa, e nemmeno se questo sia vero per tutte le rane. Interessa il problema dell’abitudine a vivere al di sotto di uno stato ottimale o della rinuncia a crescere, la rinuncia a credere che sia possibile una via di crescita o (nei casi peggiori) una via di fuga o alternativa ad un vivere oppressivo, intossicato, o semplicemente al di sotto dei propri potenziali.

L’abitudine all’ambiente negativo porta ad uno stato di contaminazione e alla mancanza di uno stimo di reazione adeguato. Si finisce per non sentire più il veleno che circola, l’aria viziata o velenosa.

Bene, in certe zone dello spazio-tempo, del vissuto personale, l’aria è ricca di ossigeno, ma in altre, larga parte dell’aria che respiriamo è viziata, e non ce ne rendiamo conto.

In certe aziende, famiglie o gruppi sociali (e persino nazioni), la persona, e la risorsa umana (in termini aziendalistici) assomiglia molto alla rana: può trattarsi di uno stagno visivamente splendido e accogliente, con entrate sontuose e atri luminosi, ma che – vissuto da dentro – diventa una perfida pozza venefica nella quale non si riesce più a “respirare”, e si finisce per soffocare.

Nella vita gli ambienti circostanti mutano ma non sempre con la velocità sufficiente ad innescare lo shock da reazione, e ci si sforza di adattarsi o sopportare. In altre realtà opposte, l’ambiente è invece favorevole e permette all’essere umano di realizzarsi.

Lo sforzo di adattamento produce un adeguamento inferiore, un blocco della tendenza attualizzante: la tendenza ad essere il massimo di ciò che si potrebbe essere, la tendenza a raggiungere i propri potenziali massimi di auto-espressione. Il nostro scopo è invece di perseguire la tendenza autoespressiva ai suoi massimi livelli: la tendenza di ogni essere umano ad essere il massimo di ciò che può essere.

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Articolo di Daniele Trevisani, Copyright 2010, Studio Trevisani


Autonalisi emozionale (il gap tra stato X e stato Y)

Ascolto Emotivo Interiore (Auto-Empatia)

© Daniele Trevisani. Tutto il materiale citato in questo articolo è copyright Studio Trevisani, e non può essere utilizzato senza autorizzazione scritta.

Per essere migliori sul piano della gestione emozionale occorre prima di tutto conoscere le proprie emozioni.

  • L’auto-empatia è la capacità di dialogare internamente alla ricerca dei propri stati emotivi, dei propri vissuti, dei blocchi e barriere che impediscono il raggiungimento di obiettivi personali e del benessere manageriale/psicologico.
  • La pratica dell’auto-empatia richiede training adeguato e volontà di non fermarsi alla superficie del proprio stato esistenziale.

Uno degli obiettivi dell’auto-empatia è la capacità di rilevare gli scostamenti tra stati emotivi ideali e stati esperiti nel momento attuale o in altre condizioni di vita. Lo scostamento XY misura l’asse di sviluppo emozionale ricercato.


L’autoempatia viene ottenuta, secondo i principi sviluppati da Studio Trevisani, tramite varie tecniche:

  • Il metodo X-Y: Occorre avviare un dialogo interiore emozionale….es: Vorrei sentirmi così (Y)… ed invece mi sento così…. (X) e decidere di avviare cambiamenti ove troviamo scostamenti importanti.
  • per le emozioni consapevoli: tecniche di profilazione degli stati emotivi – creazione del proprio profilo emotivo tramite strutture di differenziale semantico
  • per le emozioni inconsapevoli, subconscie e inconscie: tecniche di auto-ascolto emozionale corporeo
  • per la rilevazione dei trend e stressor emozionali lo Studio ha sviluppato tecniche di autonarrazione e autodiagnosi che comprendono attività di rilevazione sia quotidiana che settimanale.
  • di grande aiuto per avviare un percorso è la tenuta di un diario personale nel quale appuntare le situazioni critiche dal punto di vista emozionale e le reazioni avute, cercando di identificare esattamente cosa ha provocato le reazioni emozionali, le specifiche frasi, persone, situazioni o luoghi

L’aiuto di un terapeuta o counselor può accelerare notevolmente il processo di autoempatia, soprattutto utilizzando un approccio misto, di tipo sia rogersiano (tecniche di ascolto non direttivo) che tramite metodi direttivi.


© Daniele Trevisani. Tutto il materiale citato in questo articolo è copyright Studio Trevisani, e non può essere utilizzato senza autorizzazione scritta.

Nuove capacità di analisi: competenze emotive e riconoscimento delle emozioni

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© Daniele Trevisani. Tutto il materiale citato in questo articolo è copyright Studio Trevisani, e non può essere utilizzato senza autorizzazione scritta.

Nuove competenze emotive (mood awareness, mood labeling, mood monitoring, cognitive la­beling)

Bisognerebbe tentare di essere felici, non fosse altro per dare l’esempio.

(Jacques Prévert)

 

Estratto da: Il Potenziale Umano, di Daniele Trevisani

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Le aziende possono creare i migliori prodotti. Ma se chi li vende non è all’altezza, non si venderanno. Questo vale anche per i Manager. Se chi gestisce le persone non riesce a capirne l’animo, avremo aziende spente e demotivate. Nuove competenze di formazione diventano estremamente urgenti…

L’umore è uno degli elementi più esplicitamente correlati alle energie mentali, e dalle forti capacità “contagiose”, in bene e in male.

Un umore è una condizione emotiva di maggiore durata rispetto al­l’emozione istantanea, e meno collegata ad un singolo evento scatenante.

I tipi di personalità sono invece tratti più duraturi che predispongono a tipi di umore specifici. Lottare contro l’eredità umorale appresa è una sfida nobile.

Secondo Thayer, l’umore è un prodotto di due dimensioni, l’energia e la tensione[1]. Gli umori positivi avvengono in zone di energie elevate e stato di calma, mentre ci sentiamo peggio quando siamo in condizione di basse energie fisiche accompagnate a tensione emotiva.

Bassi livelli di energie mentali sono in genere accompagnati da condizioni umorali negative, tristezza, depressione, mentre alti livelli sono accompagnati da stati positivi, dal rilassamento sino alla gioia e all’euforia.

Ciò che ci interessa maggiormente in termini di coaching analitico è il concetto di mood awareness[2], la consapevolezza dello stato umorale, una capacità specifica ed allenabile, composta da mood labeling (saper etichettare lo stato emotivo in corso) e mood monitoring (saper monitorare l’anda­mento del proprio umore, coscientemente, tener traccia delle variazioni).

Il labeling, in particolare, rappresenta il ponte essenziale tra il sentimento interno e la possibilità di comunicarlo.

Comunicare ad altri come ci si sente è importantissimo, ed è tema di cui si occupano molte ricerche, che giungono a inquadrare il concetto di empatia interna[3], o la capacità di capirsi. Questa dipende anche dalla capacità di trovare etichette (verbali) per gli stati cognitivi e per i sentimenti vissuti.

Conoscere i propri stati e non negarli è essenziale, ma poi serve la capacità di descriverli e – soprattutto –  l’occasione fisica, vera, di parlarne a qualcuno che ci ascolti.  Trovare oggi chi sia in grado da farci da contenitore emotivo è qualcosa di estremamente raro, ma non è su questo che mi voglio soffermare ora. Il fattore tecnico è che anche quando questa occasione di ascolto accade, non siamo sufficientemente capaci di esprimere i nostri veri sentimenti con precisione. Di questo ogni coach, leader o psicologo dovrebbe tenere conto.

Più in generale, la capacità di riuscire a dare nome e descrizione ai processi mentali in corso (cognitive labeling skills) permette di crescere psicologicamente.

Infatti, non è per nulla scontato sapere come ci si sente, riuscire a riflettervi sopra analiticamente, o riuscire a comunicarlo, prima che gli umori diventino distruttivi. Molti subiscono lo stato umorale passivamente, o non riescono a condividerlo, o essere ascoltati, e in questo modo non arrivano a scardinare i meccanismi che lo generano, o replicare stati positivi.

Le energie mentali producono specifici stati umorali. Nella fig. 2 vediamo diverse tipologie.

La domanda primaria rispetto allo schema evidenziato è “come ti senti?” L’attività di scavo deve riguardare invece il “perché ti senti così?”

All’interno delle risposte devono essere notati e scoperti i meccanismi di ragionamento che depotenziano e corrodono l’umore, le azioni e stili di vita che avvizziscono la persona, gli stili cognitivi disfunzionali, le aree su cui lavorare, e tutte le azioni invece positive da consolidare e rinforzare.

La psicoenergetica nel metodo HPM si occupa dei fattori psicologici che producono tali stati soggettivi o livelli di umore.

In questo lavoro, non è possibile astenersi dal giudizio, non è possibile evitare di applicare valori e criteri di riferimento personali.

In questo, il coaching differenzia sostanzialmente dalla psicoterapia non direttiva, in quanto arriva a dare giudizi di valore e indicare strade da perseguire.

Note di formazione:

Per essere migliori sul piano della gestione emozionale occorre prima di tutto conoscere le proprie emozioni.

  • L’auto-empatia è la capacità di dialogare internamente alla ricerca dei propri stati emotivi, dei propri vissuti, dei blocchi e barriere che impediscono il raggiungimento di obiettivi personali e del benessere manageriale/psicologico.
  • La pratica dell’auto-empatia richiede training adeguato e volontà di non fermarsi alla superficie del proprio stato esistenziale.

Uno degli obiettivi dell’auto-empatia è la capacità di rilevare gli scostamenti tra stati emotivi ideali e stati esperiti nel momento attuale o in altre condizioni di vita. Lo scostamento XY misura l’asse di sviluppo emozionale ricercato.
L’autoempatia viene ottenuta, secondo i principi sviluppati da Studio Trevisani, tramite varie tecniche:

  • Il metodo X-Y: Occorre avviare un dialogo interiore emozionale….es: Vorrei sentirmi così (Y)… ed invece mi sento così…. (X) e decidere di avviare cambiamenti ove troviamo scostamenti importanti.
  • per le emozioni consapevoli: tecniche di profilazione degli stati emotivi – creazione del proprio profilo emotivo tramite strutture di differenziale semantico
  • per le emozioni inconsapevoli, subconscie e inconscie: tecniche di auto-ascolto emozionale corporeo
  • per la rilevazione dei trend e stressor emozionali lo Studio ha sviluppato tecniche di autonarrazione e autodiagnosi che comprendono attività di rilevazione sia quotidiana che settimanale.
  • di grande aiuto per avviare un percorso è la tenuta di un diario personale nel quale appuntare le situazioni critiche dal punto di vista emozionale e le reazioni avute, cercando di identificare esattamente cosa ha provocato le reazioni emozionali, le specifiche frasi, persone, situazioni o luoghi

L’aiuto di un terapeuta o counselor può accelerare notevolmente il processo di autoempatia, soprattutto utilizzando un approccio misto, di tipo sia rogersiano (tecniche di ascolto non direttivo) che tramite metodi direttivi.


[1] Thayer, R. E. (1989), The biopsychology of mood and arousal, Oxford University Press, New York, NY.

Thayer, R. E. (1996), The origin of everyday moods: Managing energy, tension and stress, Oxford University Press, New York, NY.

Thayer, R. E. (2001), Calm Energy, Oxford University Press, New York, NY.

[2] Woodhouse, S. S., Gelso, C.J. (2008), Volunteer Client Adult Attachment, Memory for In-Session Emotion, and Mood Awareness: An Affect Regulation Perspective, Journal of Counseling Psychology, v. 55, n. 2, pp. 197-208, Apr.

[3] Jackson, E. (1986), Internal Empathy, Cognitive Labeling, and Demonstrated Empathy, Journal of Humanistic Education and Development, v. 24, n. 3, pp. 104-115, Mar.



© Daniele Trevisani. Tutto il materiale citato in questo articolo è copyright Studio Trevisani, e non può essere utilizzato senza autorizzazione scritta.

Sessuologia e comunicazione (non solo clinica), tra Tantra, Educazione, Ipocrisia e Impresa

La sessuologia è un settore importante della psicologia, con un problema tuttavia, quello di essere soprattutto analizzata dal punto di vista clinico, con una concentrazione sulle patologie e non come territorio di espressione umana.
Ancora oggi, la concezione borghese dominante ci impedisce di parlare della sessualità con i gradi di libertà che servirebbero, e addirittura proibisce di considerarla territorio di sperimentazione del Potenziale Umano.
Ritengo invece che essa sia un importante territorio di ricerca per il Potenziale Umano, che ci permette di ragionare apertamente invece del lato culturale della Sessuologia, sul concetto di pulsione e di cultura, sui confini tra neuroscienze e comunicazione.
Ma ancora, potremmo investigare nuove aree di semiotica sperimentale che potrebbe analizzare i significati attribuiti alla “sensazione” opposta ad un atto meccanico, sulla corazza caratteriale, sui confini conversazionali che inibiscono una comunicazione corretta e aperta su questo tema, uno spazio di conversazione che non ha vero spazio nella coppia e nei media, al di fuori del gossip e della banalizzazione, e lasciano quest’area, sesso e sessualità, nella cloaca del gossip, nei territori della vergogna e del ridicolo, e dell’ipocrisia.
Come risultato, l’educazione sessuale vera degli adolescenti è lasciata a Youporn e ai video che si scambiano tra cellulari, e nella comunicazione di coppia la sessualità e l’esperienza della sessualità (anche in termini di analisi delle “sensazioni sentite” o Bodily Felt Sensations, usando come tecnica ad esempio il Focusing di Gendlin), è qualcosa di oscuro e considerato “roba strana” (se va bene, o ignorato).

Ricordo solo che per i suoi studi pionieristici sulle relazioni tra energie umane e liberazione sessuale, Reich è stato persino incarcerato (e morì in carcere nel 1957) perchè ritenuto indegno dalla comunità medica di praticare le sue analisi e terapie tra sviluppo ed inibizione delle energie psichice e sviluppo ed inibizione culturale della sessualità (negli anni ’30, ’40 e ’50 questo tema era decisamente d’avanguardia e contro ogni visione borghese. Lo è ancora).

Il confine di contatto scientifico tra comunicazione e sessuologia esiste, e trova concretezza negli studi sulla comunicazione seduttiva (in termini scientifici), nella comunicazione sentimentale, nella comunicazione nella coppia, nella comunicazione tattile, aptica (non verbale).

Sebbene non sia ancora del tutto lecito parlarne apertamente, questo ci permette ad esempio di analizzare la comunicazione uomo-donna e la qualità relazionale anche da angolazioni che sfuggono in genere alle Scienze della Comunicazione classiche e vengono relegate, appunto al solo piano clinico. Nessuna conclusione, del resto impossibile, ma solo l’apertura di un capitolo di discussione.

I territori di confine tra sessuologia “non clinica” e comunicazione esistono, eccome. Ad esempio, la strutturazione non convenzionale in 4 strati della psiche umana (Nucleo, Emozioni, Carattere, Agency), ci permette di utilizzare un  nuovo termine, lo “Stato di Agency”, anche parlando di comunicazione interpersonale.

Questa strutturazione proposta da Zadra nella sua analisi della sessuologia tantrica, individua lo stato di Agency come lo strato esterno della comunicazione falsa e mascherata, dell’immagine proiettata per appagare gli altri e che non risponde per niente a ciò che vorremmo veramente essere o dire. Potremmo chiederci, ad esempio, quante conversazioni in azienda avvengono in stato di Agency e quante invece in condizioni di comunicazione vera, sincera, trasparente. Come vediamo, i confini tra analisi non convenzionale della sessuologia e analisi della comunicazione esistono, su molti lati. Il più è smettere di lasciare questo tema nel territorio della repressione conversazionale.

Entrare in contatto da Nucleo a Nucleo è uno degli obiettivi di una sessuologia tantrica, e chiediamoci quando questo sarebbe importante, come metafora, anche per stimolare un contatto e una comunicazione più vera tra persone e in azienda.

E’ un tema inedito (lo stato di Agency, la scoperta della falsità inutile vs la cortesia utile, l’ipocrisia mascherata, il tentativo di contatto Nucleo-Nucelo) che – assimilato dalla sessuologia non convenzionale – inserisco molto spesso nei miei seminari aziendali di formazione manageriale (esempio, nei corsi di leadership, di comunicazione efficace, e altri) e trova sempre un enorme riscontro, provocando analisi e riflessioni importantissime, perchè risponde al bisogno delle persone di essere meno “costruite” e un più se stesse, andare al sodo dei problemi o dei progetti, uscire dall’ambiguità che distrugge, dai veleni delle ipocrisie, e ci parla del bisogno di esprimersi, anzichè di fingere.

Una bella citazione che non ci si aspetta in genere da un libro sulla sessualità, per concludere questa conversazione:

Sotto la corazza psichica del carattere, infatti, esiste la zona che ospita tutte le ferite emotive che abbiamo subìto, le parti di noi che neghiamo, quello che la nostra famiglia ha punito e la nostra educazione soffocato. È qui che risiede il nostro bambino interiore: innocente, spontaneo, curioso, ma anche emotivo, sensibile, vulnerabile. Qui nasce la nostra esigenza di contatto e di affetto, l’esigenza di sentirsi apprezzati e la voglia di esprimere liberamente gioia e tristezza.Lo scudo del carattere impedisce che questa parte “morbida” venga toccata dalle emozioni forti che potrebbero ferirci. Questa funzione difensiva, però, di fatto allontana e rende inaccessibili i momenti in cui potremmo sentirci completi, sinceri e in pace con noi stessi. In pratica, ci proibisce di avere un contatto intimo con una parte importante della nostra psiche. (Tantra, p. 54, ed Mondadori, di E. e M. Zadra)

Potenziamento delle competenze emotive e nuove competenze emotive

Autore: Daniele Trevisani. Estratto dal volume “Il Potenziale Umano“, Franco Angeli editore, Milano, 2009, Copyright

2.5. Le nuove competenze emotive (mood awareness, mood labeling, mood monitoring, cognitive la­beling)

Bisognerebbe tentare di essere felici, non fosse altro per dare l’esempio.

(Jacques Prévert)

L’umore è uno degli elementi più esplicitamente correlati alle energie mentali, e dalle forti capacità “contagiose”, in bene e in male.

Un umore è una condizione emotiva di maggiore durata rispetto al­l’emozione istantanea, e meno collegata ad un singolo evento scatenante.

I tipi di personalità sono invece tratti più duraturi che predispongono a tipi di umore specifici. Lottare contro l’eredità umorale appresa è una sfida nobile.

Secondo Thayer, l’umore è un prodotto di due dimensioni, l’energia e la tensione[1]. Gli umori positivi avvengono in zone di energie elevate e stato di calma, mentre ci sentiamo peggio quando siamo in condizione di basse energie fisiche accompagnate a tensione emotiva.

Bassi livelli di energie mentali sono in genere accompagnati da condizioni umorali negative, tristezza, depressione, mentre alti livelli sono accompagnati da stati positivi, dal rilassamento sino alla gioia e all’euforia.

Ciò che ci interessa maggiormente in termini di coaching analitico è il concetto di mood awareness[2], la consapevolezza dello stato umorale, una capacità specifica ed allenabile, composta da mood labeling (saper etichettare lo stato emotivo in corso) e mood monitoring (saper monitorare l’anda­mento del proprio umore, coscientemente, tener traccia delle variazioni).

Il labeling, in particolare, rappresenta il ponte essenziale tra il sentimento interno e la possibilità di comunicarlo.

Comunicare ad altri come ci si sente è importantissimo, ed è tema di cui si occupano molte ricerche, che giungono a inquadrare il concetto di empatia interna[3], o la capacità di capirsi. Questa dipende anche dalla capacità di trovare etichette (verbali) per gli stati cognitivi e per i sentimenti vissuti.

Conoscere i propri stati e non negarli è essenziale, ma poi serve la capacità di descriverli e – soprattutto –  l’occasione fisica, vera, di parlarne a qualcuno che ci ascolti.  Trovare oggi chi sia in grado da farci da contenitore emotivo è qualcosa di estremamente raro, ma non è su questo che mi voglio soffermare ora. Il fattore tecnico è che anche quando questa occasione di ascolto accade, non siamo sufficientemente capaci di esprimere i nostri veri sentimenti con precisione. Di questo ogni coach, leader o psicologo dovrebbe tenere conto.

Più in generale, la capacità di riuscire a dare nome e descrizione ai processi mentali in corso (cognitive labeling skills) permette di crescere psicologicamente.

Infatti, non è per nulla scontato sapere come ci si sente, riuscire a riflettervi sopra analiticamente, o riuscire a comunicarlo, prima che gli umori diventino distruttivi. Molti subiscono lo stato umorale passivamente, o non riescono a condividerlo, o essere ascoltati, e in questo modo non arrivano a scardinare i meccanismi che lo generano, o replicare stati positivi.

Le energie mentali producono specifici stati umorali. Nella fig. 2 vediamo diverse tipologie.

La domanda primaria rispetto allo schema evidenziato è “come ti senti?” L’attività di scavo deve riguardare invece il “perché ti senti così?”

All’interno delle risposte devono essere notati e scoperti i meccanismi di ragionamento che depotenziano e corrodono l’umore, le azioni e stili di vita che avvizziscono la persona, gli stili cognitivi disfunzionali, le aree su cui lavorare, e tutte le azioni invece positive da consolidare e rinforzare.

La psicoenergetica nel metodo HPM si occupa dei fattori psicologici che producono tali stati soggettivi o livelli di umore.

In questo lavoro, non è possibile astenersi dal giudizio, non è possibile evitare di applicare valori e criteri di riferimento personali.

In questo, il coaching differenzia sostanzialmente dalla psicoterapia non direttiva, in quanto arriva a dare giudizi di valore e indicare strade da perseguire.


[1] Thayer, R. E. (1989), The biopsychology of mood and arousal, Oxford University Press, New York, NY.

Thayer, R. E. (1996), The origin of everyday moods: Managing energy, tension and stress, Oxford University Press, New York, NY.

Thayer, R. E. (2001), Calm Energy, Oxford University Press, New York, NY.

[2] Woodhouse, S. S., Gelso, C.J. (2008), Volunteer Client Adult Attachment, Memory for In-Session Emotion, and Mood Awareness: An Affect Regulation Perspective, Journal of Counseling Psychology, v. 55, n. 2, pp. 197-208, Apr.

[3] Jackson, E. (1986), Internal Empathy, Cognitive Labeling, and Demonstrated Empathy, Journal of Humanistic Education and Development, v. 24, n. 3, pp. 104-115, Mar.

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Copyright, Articolo estratto con il permesso dell’autore, dal volume di Daniele Trevisani “Il Potenziale Umano“, Franco Angeli editore, Milano.2009. Pubblicato con il contributo editoriale di Studio Trevisani Communication Research, Formazione e Coaching.

Potenziare la corteccia prefrontale sinistra: la nuova frontiera

Autore: Daniele Trevisani. Estratto dal volume “Il Potenziale Umano“, Franco Angeli editore, Milano, 2009, Copyright

2.3.  Potenziare la corteccia prefrontale sinistra

Le neuroscienze insegnano che il cervello risponde agli stimoli con meccanismi molto simili a quelli dei muscoli: le aree usate frequentemente lavorano, si rafforzano, si “irrobustiscono”, si potenziano; le aree inutilizzate diminuiscono di tono e volume sino a divenire quasi inesistenti (chi ha avuto lunghe ingessature si è potuto rendere conto direttamente di quanto il non-utilizzo produca riduzione del volume della zona ingessata).

Lo stesso meccanismo accade nella mente. Una sequenza di momenti positivi e sensation windows positive (SW) allena e tiene attiva la corteccia prefrontale sinistra, la cui attività si correla a emozioni positive (gioia, capacità di cogliere le positività, sensazioni, energia, coscienza)[1]. Al contrario, una sequenza di SW negative allena la corteccia prefrontale destra, maggiormente specializzata nel cogliere emozioni negative.

Addirittura, i neuro-scienziati hanno dimostrato un effetto sull’induzione di percezione e ricordo positivo, tramite stimolazioni magnetiche dirette (repetitive transcranial magnetic stimulation) della zona orbitofrontale sinistra[2].

In termini di coaching formativo, non volendo confondere i ruoli (le  stimolazioni tramite attrezzature biomedicali sono sfera medica), preferiamo indurre una uguale e maggiore capacità (persino più duratura) tramite apprendimento esperienziale, per vivere i goal e obiettivi positivi, generando stimoli allenanti ed esistenziali adeguati. Questi effetti non sono banali.

Va da se che se alleniamo molto un braccio e l’altro no, avremmo degli scompensi. Così come se avessimo una gamba potente e muscolosa e un’al­tra de­bole e avvizzita, la nostra camminata sarebbe zoppicante, e l’equilibrio dell’or­ganismo si farebbe deficitario. Ogni disequilibrio fisico porta a ripercussioni negative su tutto l’apparato scheletrico e muscolare, ed ogni disequilibrio mentale a malfunzionamento del pensiero, malessere e sofferenza psichica.

Il funzionamento ottimale dipende perciò anche dalla capacità di creare equilibri e simmetrie, e un potenziamento “stupido”, che non tenga conto degli equilibri, ma cerchi solo “potenza”, è dannoso, distruttivo.

Lo stesso accade nella mente. Dobbiamo imparare ad allenare e stimolare la corteccia prefrontale sinistra e in generale a vivere le emozioni positive non solo in seguito ad eventi enormi (lotterie, vincite) ma anche e soprattutto in attività che altrimenti non coglieremmo. Dobbiamo programmare spazi e tempi in cui farlo. È questione di sopravvivenza.

Disintossicare la mente non è quindi più solo arte ma anche scienza.

È importante quindi non solo generare spazi e tempi dedicati, ma anche cogliere sensazioni positive (sensation windows), esperienze che sfuggono anche se limitate o non eterne, e il dono che ne deriva.

La vita ci offre continuamente doni, anche se limitati.

Per dono limitato si intende la sensazione che anche un semplice gesto o atto può portare per pochi istanti, senza pretendere che esso duri per sempre.

Ed ancora, apprendere a cogliere energie da una capsula spaziotemporale (il dono di un frame), fa parte di nuove abilità da coltivare in sé e negli altri.


[1] Vedi, tra i contributi di ricerca sul tema: Davidson, R. J. (1998), Understanding Positive and Negative Emotion, in LC/NIMH conference proceedings “Discovering Our Selves: The Science of Emotion”, May 5-6, 1998, Decade of The Brain Series, Library of Congress, Washington DC.

[2] Schutter, D. J., van Honk, J. (2006), Increased positive emotional memory after repetitive transcranial magnetic stimulation over the orbitofrontal cortex, Journal of Psychiatry and Neuroscience, Mar. 31 (2), pp. 101-104 (Department of Psychonomics, Affective Neuroscience Section, Helmholtz Research Institute, Utrecht University, Utrecht, NL).

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Copyright, Articolo estratto con il permesso dell’autore, dal volume di Daniele Trevisani “Il Potenziale Umano“, Franco Angeli editore, Milano.2009. Pubblicato con il contributo editoriale di Studio Trevisani Communication Research, Formazione e Coaching.

Verso il concetto di “Regie Terapeutiche”

hpm1Regie terapeutiche

Dal volume di Trevisani, Daniele (2007), Regie di Cambiamento. Approcci integrati alle risorse umane, allo sviluppo personale e organizzativo, e al coaching. FrancoAngeli, Milano. Diritti di riproduzione riservati. Sono possibili gli utilizzi per fini formativi, didattici e di ricerca, previa citazione dell’autore e della fonte. Altri materiali inerenti le Regie al sito www.studiotrevisani.it/hpm1. Vedi inoltre  Scheda sintetica del volume su IBS

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Sul fronte terapeutico, il problema delle regie è quantomai attuale. Inutile raccontarsi bugie, credere ai proclami scritti nei documenti associativi e statutari, belli ma non reali. I terapeuti dotati di “fuoco sacro” per il loro lavoro sono sempre meno, ancora meno sono i terapeuti-ricercatori che osano sfidare le scuole di appartenenza e i testi ufficiali su cui studiano.

La psicologia e la psicoterapia sono tra i campi più afflitti dalla sindrome studiata da Kuhn, la resistenza alle rivoluzioni scientifiche che vengono “da fuori”, tale per cui le scuole professionali e di pensiero si autocelebrano, coltivano i propri eletti su basi di affiliazione, ostacolano il confronto con altre scuole, creano circoli chiusi. Questo in psicoterapia accade frequentemente. Gli psicoterapeuti in genere aderiscono a scuole, per esempio “sistemico-relazionale”, “comportamentale”, “rogersiana”, “cognitivo-comportamentale”, “psicodrammatica”, e i più rifiutano una convergenza interdisciplinare.

Aumentano i burocrati della terapia, i protocolli terapeutici pronti all’uso, da discount della guarigione, i protocolli diventano oggetti da usare senza pensare, gli strumenti psicometrici di misurazione tramite questionario divengono vangeli, mentre in realtà sono strumenti validi per “annusare” se va bene, ma non sufficienti per una regia terapeutica.

Il modello dell’intervento terapeutico, nella psicoterapia e nella terapia medica è ampiamente medico-centrico, e – nonostante gli innumerevoli sforzi (vedi i lavori di Carl Rogers per la terapia centrata sul cliente) coinvolge poco il cliente sulla metodologia, e persino sulle responsabilità.

Mentre nessuno può togliere al medico la decisione ultima (in qualità di  esperto) su quale scelta difficile fare, può invece evolvere enormemente il grado di condivisione del metodo, delle opzioni di intervento che viene applicato con il paziente.

Ad esempio, se vogliamo trattare il problema del dimagrimento di un obeso, dobbiamo sicuramente essere consapevoli che possiamo agire (come gamma di opzioni) sul piano medico, psicologico, comportamentale, e farmaceutico.

Ma – è questo il punto – il cliente deve fare delle scelte sul grado di rapidità del dimagrimento desiderato, sul tipo di restrizione e rinunce alimentari, o piuttosto sul fatto di non volere fare alcuna rinuncia e farsi impiantare un palloncino nello stomaco per togliere automaticamente il senso di fame.

Il risultato finale (dimagrire) può essere ottenuto con una mole tanto vasta di opzioni che risulta limitato pensare di agire con una sola strada terapeutica. È molto più ragionevole aumentare la consapevolezza del cliente sulle diverse opzioni, creare una convergenza di metodi, e aiutarlo a diventare protagonista della scelta tra le diverse opzioni.

E questo, beninteso, non significa diventare “buonisti”. Il modello delle regie non è in sè per nulla “buonista”, è assertivo, poiché ad un certo punto obbliga il consulente a divenire Regista, a scegliere un percorso, a prendersi delle responsabilità. Tuttavia, gli spazi per condividere il modello con il cliente, per farlo partecipe del processo, per assegnargli responsabilità e aumentare la compliance (collaborazione con il medico) sono enormi.

Il cambiamento volontario non è un processo che un soggetto attua e l’altro subisce (come molti pensano), ma un percorso nel quale i due soggetti devono collaborare, lavorare assieme.

Anche il cliente ha forti responsabilità nel percorso di cambiamento. Tuttavia, il cliente nel rapporto terapeutico ha la tendenza a “attendere istruzioni”. Nel “non detto” del rapporto terapeutico si crea l’attesa del cliente  di dover rimanere passivo e attendere ricette. Sarà difficile che sia il cliente stesso a “fare la prima mossa” e cercare di diventare co-protagonista nel processo e parteciparvi più attivamente. Il rischio di chi lo fa è di invadere il territorio psicologico del medico-terapeuta e di essere rigettato.

Esiste poi il problema del metodo. Agire con una regia in campo terapeutico significa utilizzare una serie di strumenti molto ampia, e coordinarli. Agire senza regia significa invece prendere appuntamenti con un terapeuta o medico, il quale deciderà di volta in volta cosa fare, o usare una sola dimensione della terapia, perdendo opportunità.

Esiste una forte presa di responsabilità nel terapeuta che decide di approntare una regia di intervento: pianificare i diversi strumenti (tools), e testare i suoi progressi sul campo[1].

La differenza tra un intervento terapeutico con regia o senza si coglie:

  1. dalla consapevolezza che ha il cliente di quale fase del percorso sta attraversando (senso della posizione);
  2. dal senso stesso del percorso che ha il cliente (senso del tragitto);
  3. dal fatto che il terapeuta abbia o meno approntato un percorso o agisca alla giornata (grado di organizzazione del percorso);
  4. dal fatto che vengano presi appuntamenti di volta in volta o si preveda un ciclo terapeutico basato su modello (auspicabile);
  5. dalla molteplicità degli strumenti di intervento che il terapeuta è in grado di mettere in atto (grado di varietà): la varietà dei metodi di cui dispone, la quantità di strumenti che si trovano nel toolbox o “borsa degli attrezzi” del terapeuta.

Un esempio pratico in campo psicologico: agire sull’ansia. Il terapeuta è in grado di scavare, far emergere la trasmissione transgenerazionale del disagio psichico, per capire se ci sono “assorbimenti” di modelli psicologici dai genitori (approccio psicodinamico e freudiano)? Ha il repertorio per fare questo? È in grado di attivare un vero clima di accoglienza incondizionata, di ascolto empatico, di seguire il flusso del pensiero del cliente senza forzarlo troppo presto, se e quando necessario (approccio rogersiano[2])? Conosce queste tecniche? Il terapeuta è poi in grado di dare “compiti per casa” al soggetto, per velocizzare il suo processo e favorirne l’autonomia (approccio cognitivo-comportamentale)?

È in grado di andare persino contro la sua scuola di pensiero di provenienza, e i protocolli appresi, se reputa utile farlo?

È in grado di lavorare sullo stile di respirazione del cliente, sul rilassamento, sulle tecniche di matrice corporea e bioenergetica, può insegnarli a fare training autogeno o altre tecniche? Conosce queste tecniche? O la sua scuola glielo impedisce? È in grado di “far provare” nuovi comportamenti, prima che il cliente li provi sul campo (tecniche teatrali)? Sa creare role-playing e psicodrammi? Sa lavorare con questi strumenti? O è chiuso nella sua “verità” monodisciplinare?

Ci fermiamo qui, ma potremmo proseguire con altre addizioni di strumenti, dall’Analisi Transazionale alla supplementazione alimentare mirata, per poi rituffarci nella Analisi della Conversazione (Conversation Analysis) e nella semiotica, e vedere che contributi possono portare per risolvere il problema del cliente.

Il meta-problema è la quantità di strumenti che il terapeuta sa mettere in atto (repertorio registico) e la sua capacità di coordinarli alla luce della situazione del cliente, facendoli diventare un flusso registico.

È difficile trovare terapeuti aperti alla multidisciplinarietà, esperti in più metodi, o qualcuno che non si chiuda in una sola visione del problema, o non si faccia limitare dalla sua scuola di provenienza – qualcuno in grado di predisporre un intervento multi-livello, concreto e allo stesso tempo ben fondato scientificamente[3].

Attorno al tema delle regie si ripresenta in tutta la sua forza il bisogno di un approccio olistico-pragmatico: Olistico: aperto al tutto, e Pragmatico, dagli effetti tangibili, concreto, pratico. Una preoccupazione che sta alla base del metodo ALM sin dal primo volume.


[1] Anche per gli interventi condotti secondo la scuola psicoterapeutica rogersiana, tipicamente non direttiva, è possibile predisporre delle regie estremamente sofisticate andando a stimolare aree di esplorazione psicologica tramite domande mirate, o integrando la terapia rogersiana con altri interventi comportamentali o con metodi di altre scuole, o con interventi di tipo farmacologico, o persino alimentare.

 

[2] Per approfondire i principi dell’approccio di Carl Rogers, vedi testi citati in bibliografia.

[3] Mi è capitato personalmente di chiedere ad una psicologa di un centro per l’handicap – partecipante ad un corso sulle performance organizzative – se siano state utilizzate tecniche di rilassamento e bioenergetica nei programmi per il recupero dell’handicap. La risposta: “no perché sono una terapeuta sistemico-relazionale” evidenzia una centratura sul T-mondo (il mondo del terapeuta) e non sul C-Mondo (il mondo del Cliente e i suoi bisogni). La risposta corretta e meno ipocrita sarebbe stata “No, non li conosco, non so quando e come usarli all’interno di un intervento, la mia scuola non li prevede”.

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Dal volume di Trevisani, Daniele (2007), Regie di Cambiamento. Approcci integrati alle risorse umane, allo sviluppo personale e organizzativo, e al coaching. FrancoAngeli, Milano. Diritti di riproduzione riservati. Sono possibili gli utilizzi per fini formativi, didattici e di ricerca, previa citazione dell’autore e della fonte. Altri materiali inerenti le Regie al sito www.studiotrevisani.it/hpm1


Energie Personali

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Le energie personali sono un concetto che tocchiamo ogni giorno. E non solo. Sono uno dei temi centrali di chi si occupa di psicologia e di formazione, ma anche di pedagogia o di management.
Guardate negli occhi le persone mentre sono in coda ad un semaforo, guardate le facce di chi entra nelle aziende e negli uffici. Non troverete grandi differenze.
Far crescere le energie personali richiede un programma e non avviene per caso. E’ di questo che mi occupo, ma mi sia consentita una riflessione:
  • Una persona che si trovi a basso livello di energie entrerà presto in crisi in termini esistenziali e psicologici. Persino una intera nazione può essere (ed è il caso dell’Italia) a basso livello di energia: le code per vincere lotterie, per vincere alle scommesse, i toto-qualsiasicosa, tutto pur di sfuggire ad una strada che richieda di guardarsi dentro e cercare una via alternativa attraverso la propria formazione personale.
  • Siamo uno dei paesi occidentali in cui si conoscono meno le lingue straniere. Manca la voglia di studiare, i Leonardo, i Machiavelli, fuggono all’estero, se possono, o rimangono a fare l’elemosina presso i baronati universitari o i piccoli e grandi maledetti potentati locali.
  • In molte zone (non solo rurali) il fatto di “andare dallo psicologo” diventa sinonimo (sbagliato) di malattia mentale, mentre dovrebbe essere una normalissima forma di manutenzione (prima) e crescita (poi) del proprio livello di energia esistenziale, un percorso di ricerca di uno stato di miglioramento personale costante, un modo per crescere come persone. Sdoganare la psicologia dal fronte della percezione ristretta alla terapia clinica (senza per questo rinnegarla in alcun modo) significa dare alla psicologia e alla formazione uno spazio sociale nuovo.
In altri paesi, counseling e psicologia trovano ben altre attenzioni e non sono assolutamente relegate, nella percezione pubblica, al fronte clinico. Fosse per me, poi, metterei almeno due anni di terapia obbligatoria per chiunque intraprende la strada dell’insegnante, affinchè si possa essere certi che le osmosi psicologiche (inevitabili) che vengono trasmesse ai bambini e ragazzi siano le più positive possibili, anzichè veleni mentali come spesso accade.
Entriamo sul piano tecnico ed osserviamo alcuni meccanismi:
  • le diffusioni energetiche: le immissioni di energia in un’area che trova implicazioni positive (fa bene) anche alle altre aree;
  • i drenaggi energetici: i cali o blocchi di energia in un’area che danneggiano anche le altre aree.

Le implicazioni per lo sviluppo personale sono numerose, ma soprattutto:

– è possibile realizzare una strategia di immissione selettiva di energie in un’area, per poi utilizzarla come perno per lo sviluppo di altre aree. Ad esempio, creare grounding bioenergetico, il che significa lavorare principalmente sulle energie del corpo per poi poter “fare leva” su un corpo energeticamente carico, su un fisico forte, pronto ad assumersi impegni psicologicamente rilevanti, anche gravosi, goal e obiettivi sfidanti;

– è possibile realizzare una strategia di immissione multipla di energie ricercando una crescita su più livelli e stadi. Ad esempio, lavorare sistematicamente e contemporaneamente su tutte le aree del modello HPM.

In generale, un lavoro su un’area è possibile solo se i livelli energetici di base dell’area toccata sono a livello sufficiente per supportare carichi superiori. Se non vi sono condizioni minime, occorre trovare strade alternative.

Ad esempio, in campo manageriale è completamente inutile realizzare un intervento dalle grandi ambizioni  (job enrichment, job enlargement, role-modeling, e altri), attaccando lo strato delle macro-competenze, se le micro-competenze di supporto sono insufficienti. Se una persona non sa nemmeno gestire una riunione di un piccolo gruppo di lavoro, inutile passare a temi ancora più complessi che poggiano su competenze che ancora non ci sono.

Altrettanto inutile è riempire di competenze (skills) un manager se mancano le energie motivazionali (volontà) necessarie a mettersi in gioco.

Inutile studiare nuovi progetti creativi se l’intero team è in stato di demotivazione cronica o affaticamento. Una persona disabilitata nelle energie mentali non va da nessuna parte, non porta avanti nemmeno se stessa, e tantomeno il progetto più ambizioso che qualsiasi mente possa partorire.

In generale, in mancanza di energie, il “nuovo” non viene affrontato. Sem­plicemente non ci sono le forze per affrontare il cambiamento.

L’area psicoenergetica assieme a quella bioenergetica sono quindi ancoraggi forti di lavoro per un coaching e una formazione seria e analitica.

Saltarli piè pari e passare subito alle competenze applicative è inutile. Così come costruire progetti che richiedono presenza di energie che non ci sono.

Gli effetti positivi delle immissioni di energie sui li­vel­li di performance e di aspirazione

In termini di psicologia positiva notiamo che l’immissione di energia in una qualsiasi cella può apportare maggiori energie al sistema, e quindi riflettiamo sul fatto che esistono molteplici modi e strade, enormi opportunità, per poter accrescere le energie personali e fare coaching e formazione di qualità.

La liberazione da una catena, o “togliere un sasso dal proprio zaino”, può aprire le strade della volontà per una scalata ulteriore. In generale, le immissioni di energie in un certo stadio aumentano il livello di fiducia in se stessi, autostima e percezione di autoefficacia. Aumenta il senso di libertà.

Le osmosi energetiche portano ad una maggiore propensione dell’indi­viduo verso l’assunzione di rischio positivo, di accettazione di sfide che prima il soggetto riteneva impensabili o troppo pericolose. Per rischio positivo intendiamo azioni che non siano minate da un livello di aspirazione malato, superumano e maniacale, condotte col cuore ma anche con la ragione.

I livelli di aspirazione sono decisamente correlati alle energie circolanti.

Gli studi scientifici di Bresson individuano il livello di aspirazione come “il risultato che un soggetto si dà per un fine da raggiungere, in un compito che ammette diversi gradi di realizzazione”[1].

A bassi livelli di energie personali corrispondono bassi livelli di aspirazione. Le energie si abbassano drasticamente, e i compiti o goal che l’individuo sente di poter gestire si richiudono sempre più entro una nicchia, sino ad implodere, se la tendenza non viene invertita.

Quando mancano le energie, ogni rischio assume sembianze mostruose, persino lo scendere in strada, o l’incontrare altre persone. Al contrario, forti osmosi energetiche positive (contaminazioni positive tra energie fisiche, mentali, competenze, volontà) conducono alla voglia e consapevolezza di poter accettare sfide e rischi superiori, persino lanciarsi con un paracadute, o condurre una operazione chirurgia al cervello (per un medico), o accettare la sfida di avere figli in un mondo difficile (per ogni genitore), o iniziare a pensare di potersi laureare, per qualcuno che aveva rinunciato a questa idea non sentendosi all’altezza, e tante altre occasioni di crescita.

Per questo motivo, nel metodo HPM, quando i canali per introdurre energie sono bloccati da un certo lato (poniamo i valori, o le competenze), è possibile sia teoricamente che concretamente aggirare questo ostacolo. Potremo partire dalla base delle energie fisiche, o da altri canali aperti o apribili, per incrementare le energie totali del sistema. È un lavoro sperimentato e funzionante nella pratica, di cui troviamo crescente supporto teorico.

Avviare il lavoro, e sbloccare i meccanismi, è più importante che fare un lavoro ingegneristicamente perfetto ma – nei fatti – solo teorico, vuoto.


[1] Bresson, F. (1965), Rischio e personalità. Il livello di aspirazione, in Trattato di Psicologia Sperimentale, a cura di Paul Fraisse e Jean Piaget (1978), Einaudi, Torino, p. 458. Edizione originale: Traité de Psychologie Expérimentale. VIII. Langage, communication et décision, 1965, Presses Universitaires de France, Paris.

Estratto sintetico dal volume: Trevisani, Daniele (2009), “Il potenziale umano. Metodi e tecniche di coaching e training per lo sviluppo delle performance”, 240 p., editore Franco Angeli, Milano

Scheda completa del volume su IBS (Internet Bookshop Italia) al link:

http://www.ibs.it/code/9788846498625/trevisani-daniele/potenziale-umano-metodi-e.html?shop=4636

© dott. Daniele Trevisani, www.danieletrevisani.com –estratto dal cap. 2


Il segreto della forza sta nella concentrazione

Ralph Waldo Emerson: Il segreto della forza sta nella concentrazione.

Una frase a volte sintetizza tutto.

La concentrazione mentale diventa potere poichè permette di focalizzare le energie verso un obiettivo “pulito”.

La vita quotidiana, invece, fa di tutto per dirigere la nostra attenzione verso obiettivi “offuscati” e a volte persino dannosi.

Io chiamo questo fenomeno “deriva psicologica”, andare alla deriva, perdersi di vista, perdere di vista gli scopi, perdere di vista il senso delle cose, dove niente ci appassiona più, niente ci attrae davvero, si finisce di vivere in un limbo esistenziale sbattuti tra un carrello di ipermercato, un programma televisivo deficiente, il lavoro come obbligo invece che come forma di espressione, nutriti di informazioni false, deformate, o che non ci servono assolutamente.

Se lo sappiamo, però, possiamo attivare i nostri meccanismi di difesa (nell’Esercito si parla di shielding psicologico e shielding informativo, o strategie di inoculazione contro i messaggi persuasivi del nemico).

Il dramma di molti ragazzi, ma anche di molti adulti e dei manager di oggi, è di non avere più niente su cui concentrarsi.

L’attenzione viene così distorta al punto che per la persona diventa importante sapere e conoscere il massimo sulle più grandi idiozie e niente su se stessi.

Molti nella nostra misera popolazione italiana di questi anni, così culturalmente soggiogata, saprebbero rispondere a decine e centinaia di domande di gossip, sanno qual’è l’ultimo flirt di George Clooney, sanno come sta Madonna, sanno tutto sulle trame di serial televisivi, non perdono una puntata dei Simpson, e sono pieni di altre informazioni che inquinano la mente, “memi” (tracce mentali) inquinanti di questo tipo.

L’inquinamento mentale impedisce di concentrarsi su ciò che conta. Impedisce di esercitare il potere della concentrazione su ciò che serve per vivere e fare onore al dono di essere vivi anzichè sprecare questo dono.

 Alcuni esempi di temi utili su cui concentrarsi:

– nel lavoro che svolgo posso esprimermi? se no, posso provare a stendere un piano di ricerca di alternative?

– la mia vita è ferma? che alternative posso tentare?

 – da quanto tempo non mi sento davvero come vorrei, e perchè?

– quali sono le fonti di informazione meno corrotte, dove trovarle in rete, su internet, invece di digerire le minestre informative precotte?

– come sto fisicamente, ho fatto esami del sangue recentemente? e al di la degli esami, che segnali mi da il mio corpo? li ascolto?

– faccio sport? lo faccio con continuità? se no perchè? ci sono strade che posso prendere con più forza di volontà?

– leggo libri che mi diano stimoli culturali, conoscenze nuove, conoscenze del corpo, della mente, della psicologia, delle scienze, o qualsiasi altro settore che mi faccia crescere personalmente?

– se non leggo, perchè non inizio?

– quante bugie mi auto-racconto?

Le domande possono essere tantissime. Alla fine, raggiungiamo sempre una sola conclusione: il segreto delle persone che hanno raggiunto i loro obiettivi da soli, senza protezione e aiuto esterno, sta

1 – nella concentrazione mentale su obiettivi positivi

2 – rimanere  “puliti” da rumori di fondo psicologici che distraggono la mente

3 – un lavoro attivo di pulizia mentale forte dai falsi obiettivi 

4 – saper riconoscere ed eliminare le perdite di tempo in attività inutili e dannose (tv commerciale, letture stupide, etc) e recupero del piacere del tempo speso in relazioni, in attività che generano piacere relazionale o finalizzate agli scopi personali

Il segreto della forza sta nella concentrazione.

– Quanti manager deconcentrati vedi nelle aziende? E che effetto produce tutto questo?

 – Quante persone che conosci puoi definire “psicologicamente concentrate”?

– Quante persone che conosci puoi definire “libere da inquinamento mentale”?

Sono solo domande. Ma se possono aprire una riflessione, ben vengano i dubbi e la voglia di cambiare qualcosa.

Daniele Trevisani