Arti Marziali e Sport da Ring come forma di rigenerazione: la sacralità che nessun altro può capire

Di Daniele Trevisani – Fulbright Scholar, Formatore, Sensei 9° Dan Sistema Daoshi

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© Articolo a cura di Daniele Trevisani, rielaborato dall’autore, dal volume “Il Potenziale Umano”, Franco Angeli editore, Milano www.studiotrevisani.it – Non sono ammesse modifiche al testo. Testo riproducibile solo con citazione della fonte come sopra.

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Voi uomini bianchi pretendete che noi ariamo la terra, che tagliamo l’erba,

che da questa otteniamo del fieno e lo vendiamo, affinché diventiamo ricchi.

Voi uomini bianchi conoscete solo il lavoro.

Io non voglio che i miei giovani uomini diventino uguali a voi.

Gli uomini che lavorano sempre non hanno tempo per sognare,

e solo chi ha tempo per sognare trova la saggezza

(Smohalla)[1]

Chi pratica arti marziali e sport di combattimento crede in qualcosa. Chi smette, è perché ha finito di credere. Classico sentir dire “chi te lo fa fare di andare a prendere dei pugni” o “andare a fare quei gesti strani”… ma chi lo vive da dentro sa che quelle ore hanno un valore sacro che a volte non vale nemmeno la pena spiegare. Tra di noi però vale la pena parlarne e anzi approfondire il discorso.

Io credo fermamente che il valore delle Arti Marziali e Sport di Combattimento vada oltre il gesto fisico e muscolare. Credo fermamente nel potere che ha un buon allenamento nel farti “staccare” dalla schifezza che circonda a volte le vite di ciascuno e collegarti alla parte buona della vita.

Credo fermamente nel potere curativo, fisico e psicologico, dei nostri sport, e che per vivere le arti marziali si debba vivere ogni allenamento a livello viscerale, con il cuore e non con il cervello, come un momento di rigenerazione e non confonderlo con uno dei tanti impegni che ci stressano.

Sapersi rigenerare diventa ancora più importante che dare prestazioni di picco. Questo soprattutto per chi intende dare prestazioni a lungo, e chi affronta con serietà un lavoro sulle performance. Le energie non sono infinite e vanno ricaricate. Costruire capsule temporali di rigenerazione è arte e scienza.

Il corpo e la mente hanno enormi capacità ma hanno bisogno di recupero.

La gestione dello stress e la ricerca del senso richiedono un lavoro sullo stile di vita, un’evoluzione permanente che si applica ogni singolo giorno, ed esige anche dei momenti di stacco dalla quotidianità e dalle pressioni. Le arti marziali e gli sport da ring permettono questo stacco fisico e mentale. Mentre fai un allenamento in sala pesi o macchine (o qualsiasi altro sport “di moda”) la tua testa può continuare a vagare sui problemi del lavoro, puoi continuare a parlare di cazzate con gli amici o finti amici, mentre combatti no. Mentre fai una forma difficile no. Li la testa è obbligata a staccare e viene a crearsi una capsula di spazio-tempo eterna, che non ha inizio né fine, sinchè hai fiato per andare avanti.

Per questo, qualsiasi luogo dove si praticano arti marziali o sport da ring è sacro. È sacro perché lì dentro, nel sudore, nella “bolla di concentrazione”, le persone cercano di elevarsi dallo stato di apatia della massa e cercano di migliorarsi o aiutare gli altri.

Nessun altro può capire quanto sia sacro sputare in palestra il veleno che hai accumulato nella giornata, e dedicarsi a picchiare un sacco o fare uno sparring o fare delle forme, come fossero una forma di preghiera. Un ringraziamento al fatto di essere vivi. Un momento in cui stai facendo delle ricerche su te stesso.

Ogni attività di coaching può trarre beneficio da ciò che i praticanti avanzati di arti marziali considerano necessario e indispensabile per esercitarsi: apprendere a staccare dalla routine giornaliera, trovare un luogo sacro, magico, speciale, o semplicemente tranquillo, per raggiungere una condizione diversa dove esprimersi.

Si tratta di uno spazio-tempo che prende molte sembianze. Il luogo fisico o psicologico del “ritiro” rigenerante o spirituale, il luogo della meditazione, o dell’ozio meditativo, o del pensiero, l’antro magico in cui fermarsi a riflettere, la grotta che simboleggia il luogo fuori dal tempo, o la pausa di riflessione necessaria per inquadrare meglio la rotta.

I setting fisici, e non solo psicologici, hanno rilevanza fondamentale per facilitare questo distacco, come evidenziato nelle arti marziali, parlando del Dojo o palestra o spazio di allenamento;

Tradizionalmente il Dojo era un luogo sacro. In realtà il Dojo è l’espressione esteriore di uno stato interiore che dobbiamo acquisire fermando il nostro mondo, arrestando il dialogo interiore. Ciò che rende sacro il Dojo è penetrare in uno stato sacro attraverso l’abbandono del nostro pensiero quotidiano, delle nostre inquietudini, dei disturbi, delle ossessioni, del tran tran delle nostre tiranniche menti, sempre incapaci di smettere di muoversi di qua e di là[2].

Nel sistema HPM dedicato al potenziale umano (www.studiotrevisani.it/hpm2)  ci riferiamo a questi luoghi-momenti come a “capsule spazio-temporali” dedicate alla rigenerazione di sé. L’esigenza di trovare un nome per questi momenti deriva dal fatto che sono momenti che tutti i praticanti seri vivono, ma spesso non abbiamo un’etichetta per definirli. Avere un nome per un momento così speciale è fondamentale. Se non sai il nome di una persona farai fatica a chiamarlo in modo diretto, se ne conosci il nome si girerà appena lo chiami.

Quando noi chiameremo le nostre ore passata ad allenarci “capsule spazio-temporali di rigenerazione”, sapremo meglio ciò che vogliamo raggiungere.

E, parliamoci chiaro, dopo anni di pratica un praticante serio vede subito, a colpo d’occhio, chi sono i praticanti che stanno vivendo l’allenamento “da dentro” la capsula spazio temporale, immersi in una sacra bolla di concentrazione, o sono li con la stessa presenza mentale con cui sarebbero a giocare a carte.

A noi stessi può capitare di non riuscire ad “essere li con la testa” durante un allenamento, ma questo stesso fatto di riconoscere che sta succedendo, può aiutarci a lasciare andare sullo sfondo i pensieri che ci concentrano, e immergersi piano piano nella parte sacra dell’allenamento, quella dove il tempo e lo spazio si fermano ed esiste solo la più assoluta concentrazione. Credo che questo momento abbia una sua sacralità.

Lo stesso tipo di attività, lo stacco dal quotidiano, può essere ottenuto attraverso esperienze di contatto con la natura, ritiri manageriali e ritiri sportivi, nella preghiera, o in una attività particolarmente gradita.

Al di là della specifica pratica, ciò che rimane sostanziale è la necessità di trovare gli spazi e i luoghi (gli spazio-tempi) in cui rigenerarsi, e non confonderli con attività che lo fanno solo apparentemente, es.: shopping, fumare, guardare programmi stupidi, e altre attività pseudo-ludiche che in realtà consumano anziché rigenerare, avviluppano invece di liberare, stressano anziché allentare le tensioni.

Fare chiarezza su questa differenza tra tempo di rigenerazione vero – il tempo sacro del dojo o del ring vissuti come dovrebbero essere – e i tempi di annientamento mentale in cui sprechi la tua vita, è una nuova sfida che i fighter possono cercare di inserire al centro del proprio bersaglio da colpire. Un bersaglio mobile e sfuggente, ma che una volta inquadrato prima o poi manderemo al tappeto.

Dott. Daniele Trevisani

Note sull’autore:

dott. Daniele Trevisani (www.danieletrevisani.com), Fulbright Scholar, consulente in formazione aziendale e coaching (www.studiotrevisani.it) insignito dal Governo USA del premio Fulbright per gli studi sulla Comunicazione nel 1990, è Master of Arts in Mass Communication alla University of Florida e tra i principali esperti mondiali in Sviluppo del Potenziale Umano.

In campo marziale e sportivo, è preparatore certificato Federazione Italiana Fitness, praticante di oltre 10 diverse discipline, Maestro di Kickboxing, Sensei 8° Dan Sistema DaoShi® Bushido www.daoshi.it formatore di atleti e istruttori di Muay Thai, Kickboxing, Karate  specializzato in Kumite, Taekwondo Full Contact, Sanda, K1, Thai e MMA. E’ stato agonista negli USA nei trofei di Karate Open Interstile e campione universitario USA alla University of Florida.

Formatore e ricercatore in Psicologia e Potenziale Umano, è consulente NATO e dell’Esercito Italiano. Laureato in Dams-Comunicazione, è inoltre specializzato in Psicometria all’Università di Padova.

Ha realizzato docenze in oltre 10 Università Italiane ed estere, ed è il tra i principali formatori italiani nella formazione risorse umane, formazione formatori, coaching, formazione di manager, di istruttori e trainer.


[1] Citazione tratta da: Recheis, K., Bydlinski, G. (2004), Sai che gli alberi parlano? La saggezza degli Indiani d’America, Ed. Il Punto d’Incontro, Vicenza.

[2] Tucci, A. (2005), Concentrazione e meditazione nelle arti marziali, Budo International, settembre, p. 62.

Trasformarsi in un’arma

Trasformarsi in un’arma

Di Daniele Trevisani www.studiotrevisani.it – Fulbright Scholar, esperto in Potenziale Umano, Psicologia e Formazione. Sensei 8° Dan Sistema Daoshi, Gruppo Facebook Praticanti di Arti Marziali e Sport di Combattimento in Italia

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© Articolo elaborato dall’autore, con modifiche, dal volume “Il Potenziale Umano” di Daniele Trevisani, Franco Angeli editore, Milano. Approfondimenti del volume originario sono disponibili anche al link www.studiotrevisani.it/hpm2

Questo articolo può essere copiato e riprodotto su siti web autorizzati, previa richiesta all’autore, purché sia mantenuta la citazione come segue: Articolo a cura di Daniele Trevisani, www.studiotrevisani.it – Non sono ammesse modifiche al testo.

Tecniche delle energie mentali e della motivazione: potenziare la mente nelle arti marziali e sport di combattimento, e il senso del “trasformarsi in un’arma”

La mente è il nostro organo più debole e forte allo stesso tempo. Può essere il migliore alleato di chi vuole vivere a pieno il suo viaggio nelle arti marziali e negli sport di combattimento. Ma occorre un metodo anche per coltivare le abilità mentali, e la coscienza profonda di cosa significa trasformarsi in un’arma

Esistono “tecniche” molto precise per il potenziamento delle facoltà mentali.

Queste tecniche – derise dagli ignoranti – vengono utilizzate da millenni nelle arti marziali e in diverse religioni, ma paradossalmente, proprio dalle arti marziali moderne sono via via sempre più dimenticate, per non parlare degli sport da ring dove vengono considerate superflue, salvo poi scoprire che un atleta ben preparato perde quasi sempre per motivi soprattutto psicologici e tattici, e non di forza muscolare.

Queste tecniche sono invece praticate al massimo livello dalla stragrande maggioranza dei vincitori olimpici in ogni disciplina. Ci sarà un motivo o no?

Caricare la mente

L’area più importante di analisi della psicoenergetica è la carica psicoenergetica. Sentirsi psicologicamente carichi è fondamentale.

L’aggettivo “psicoenergetico” si riferisce a ciò che nasce puramente da processi mentali o emozionali, e non da processi unicamente fisiologici.

Si tratta quindi di isolare l’energia autoctona dello spirito vitale, cercando di distinguerla da quella delle energie fisiche e biologiche. Un lavoro pionieristico e complesso su cui le conoscenze sono in fase davvero embrionale, lavoro difficile, ma per questo affascinante.

La carica psicoenergetica si riferisce alle energie psichiche che il soggetto riesce a produrre, separatamente dallo stato biologico e fisiologico.

Le energie mentali possono certamente essere condizionate dallo stato bioenergetico – ciascuno di noi può subire il condizionamento negativo che deriva dalla stanchezza, da un dolore fisico, dalla fame o sete, da uno squilibrio corporeo. Tuttavia, quando il corpo si trova in condizione di omeostasi, di relativa quiete, la componente mentale non è ferma. Essa può comunque trovarsi a fluttuare tra stati di carica energetica (positiva) o di mancanza di energia.

Il compito della psicoenergetica è di isolare i fattori che determinano queste fluttuazioni nella carica mentale, al di là del piano fisico. È necessario capire a quali fattori esistenziali si associano ai diversi livelli umorali, analizzare come ci si sente interiormente e come questo incide sulle nostre energie mentali.

Dobbiamo quindi analizzare prima di tutto i fattori di natura il più possibile isolata dalla condizione organismica fisica, quali l’autostima (ci sentiamo meglio o peggio ne vederci come artisti marziali o fighter?), l’autorealizzazione (ho un ideale di me stesso a cui puntare?), il desiderio di riscatto personale e di riscatto sociale (nelle arti marziali e sport di combattimento trovo la possibilità di esprimere ciò che in altri campi della vita non mi è possibile fare o non sono riuscito a fare?).

Quando – durante un anno di allenamento, o una giornata – ci si sente realizzati, motivati, sicuri di sé o piuttosto afflitti e avviliti? Quanto spesso demotivati, frustrati, o invece grintosi e forti? Questo incide certamente sulle energie totali dell’individuo e su questo punto si gioca larga parte dello sviluppo del potenziale umano.

Fissare come vorremmo essere: il sé aspirazionale come motore del nostro potenziamento

Un esercizio fondamentale di visualizzazione, che pratico con alcuni praticanti selezionati, è un esercizio di visualizzazione mentale. Iniziare a “vedere” mentalmente se stessi “come se fossimo e ci muovessimo nel modo che rappresenta davvero il mio ideale…”. Una variante, è visualizzare lo stato di forma fisica, una “fotografia mentale” di come vorremmo essere fisicamente, che funge da ancoraggio mentale per i nostri sforzi e il nostro impegno. Una variante ulteriore, è “vedersi in movimento” mentre si svolge una forma o un combattimento, sia nel modo peggiore possibile, che nel modo migliore possibile, poi discutere in gruppo che cosa esattamente c’è di diverso tra la variante “negativa” e goffa, e quella “positiva” o ideale.

Molto spesso in questi esercizi viene veramente fuori qualcosa di fondamentale: i punti specifici sui quali dover lavorare per migliorarsi.

Sul piano fisico, se riusciamo a fissare con forza, con estrema forza, un’immagine mentale fisica (il sé aspirazionale fisico), che rappresenta un nostro ideale, e fissarlo con decisione come un punto di arrivo, questo diventerà un “motore psicologico” fortissimo.

Sul piano mentale, se riusciamo a fissare con forza, con estrema forza, un’immagine mentale di come vorremmo sentirci, in allenamento o in gara (il sé aspirazionale psicologico), e fissarlo con decisione come un punto di arrivo, questo diventerà un “motore psicologico” fortissimo per allenarsi e “tendere” verso quello stato. Naturalmente questo deve essere uno stato positivo, qualcosa che ci faccia sentire bene.

A quel punto il dubbio se andare o non andare in palestra o nel Dojo la sera, o quando siamo stanchi, troverà un nemico potentissimo, l’immagine mentale “aspirazionale” che abbiamo di noi stessi e a cui vogliamo tendere. Questo fatto, oltretutto, è nemico mortale di un pericolo altrettanto mortale: la perdita di senso e di motivazione. Quando abbiamo fissato cosa vogliamo diventare, e verso cosa tendere, questa immagine mentale riempie di senso ogni nostra giornata, o ogni nostra attesa del prossimo allentamento, che diventa un “traghetto” verso quello stato ideale.

Sul “Trasformarsi in armi”

Esiste poi un altro punto fondamentale: noi non giochiamo a calcetto o a bocce. Impariamo arti che – senza tanti giri di parole – sono nate storicamente o per uccidere, o per difendersi, o per difendere altri.

Facciamo di queste arti un percorso di crescita personale, cerchiamo la componente mistica, trascendentale, e filosofica di questo percorso, e senza questa saremmo solo degli animali, ma non dobbiamo mai dimenticare l’origine vera del mondo marziale: combattere, diventare armi.

Su questo, vorrei esprimere il pensiero di un Samurai Naganuma Muneyoshi (1635-1690), che ha espresso molto meglio di quanto riuscirò mai a fare io, la sua opinione su questo fatto, del “trasformarsi in armi”.

Le armi sono strumenti di sventura.

La guerra è una faccenda pericolosa.

Se viene usata per risolvere i problemi del mondo ed eliminare la sofferenza della popolazione, è una guerra giusta.

Attaccare città che non si sono macchiate di alcuna colpa e uccidere persone innocenti è una guerra di rapina.

I predoni non vedono l’ora di mobilitarsi, mentre gli uomini nobili lo fanno solo quando è inevitabile.

Credo che sia chiara la coscienza che nessuno deve mai fare del male gratuitamente, il bullismo di chi si sente forte perché artista marziale o fighter è da ignoranti e va punito e perseguito come una piaga sociale, ma per i puri di cuore le armi sono strumenti di bene, non vanno usate se non come risorsa ultima, e solo per cause davvero nobili.

Credo che il senso del tutto sia sapere quanto e quando sia positivo diventare un arma che – pur nella nostra limitatezza di singole persone – può dare un contributo a risolvere i problemi del mondo e lottare contro la sofferenza, e mai si scaglierà contro bersagli sbagliati o innocenti.

Un arma che si tiene affilata, lubrificata, preparata, pur sapendo e sperando di non essere mai usata, ma che se occorresse, e – come sostiene Muneyoshi – solo quando è inevitabile, saprà fare ciò per cui si allena, e non si girerà dall’altra parte.

Dott. Daniele Trevisani

Note sull’autore:

dott. Daniele Trevisani, Fulbright Scholar, consulente in formazione aziendale e coaching in www.studiotrevisani.it – insignito dal Governo USA del premio Fulbright per gli studi sulla Comunicazione e Psicologia, è Master of Arts in Mass Communication alla University of Florida e tra i principali esperti mondiali in Sviluppo del Potenziale Umano.

In campo marziale e sportivo, è preparatore certificato Federazione Italiana Fitness, praticante di oltre 10 diverse discipline, Maestro di Kickboxing, Sensei (8° Dan DaoShi® Bushido), formatore di atleti e istruttori di Muay Thai, Kickboxing e MMA. E’ stato agonista negli USA nei trofei di Karate Open Interstile.

Ha realizzato docenze in oltre 10 Università Italiane ed estere, ed è il tra i principali esperti italiani nella ricerca sul potenziale umano e formazione.