Articolo estratto con il permesso dell’autore dal testo di Daniele Trevisani “Il potenziale umano. Metodi e tecniche di coaching e training per lo sviluppo delle performance”. Franco Angeli editore, Milano.
Quando lo sforzo e la fatica sono positivi per raggiungere un fine
La preparazione e il training necessari per ottenere crescita sono spesso accompagnati da sforzo fisico e fatica mentale.
Questo tipo di sforzo può arrivare anche a superare la soglia del dolore.
Nella concezione classica, il rapporto fisiologico dell’uomo con il dolore è di evitazione, salvo i casi patologici di masochismo.
Chi affronta il dolore e la fatica volontariamente rientra nella sfera degli eroi, o dei martiri, o dei coraggiosi e impavidi.
Per il performer è utile differenziare il tipo di dolore utile dall’inutile, localizzare il dolore distruttivo da quello associato alla crescita.
Il dolore distruttivo è quello che danneggia ma non crea, il dolore gratuito, o un trauma, come lo strappo di un muscolo.
Il dolore costruttivo è quello che funziona da rito di passaggio, una sofferenza che accompagna una crescita, un dolore senza il quale non è raggiungibile un livello successivo.
Sono sofferenze coscienti, ad esempio, i ricordi dolorosi necessari per la rielaborazione difficile di un brano del proprio passato con il quale non erano stati fatti i conti, o sul piano fisico un dolore associato ad uno sforzo muscolare intenso ma praticato coscientemente, vissuto in fase di allenamento e di performance.
Osserviamo la seguente testimonianza sulle tecniche di intensità utilizzate dal pluricampione di bodybuilding Arnold Schwarzenegger:
… utilizzavo anche altre tecniche, per sfruttare ogni briciola di intensità e stimolare la crescita. A parte le ripetizioni forzate, eseguite con l’aiuto di un compagno, le mie tecniche preferite erano la contrazione di picco e quella che io definivo “azione di pompaggio”. La prima consiste semplicemente nel mantenere la posizione superiore di ogni ripetizione … per 3 -4 secondi prima di scendere. Si tratta di una tecnica molto dolorosa, ma io ho sempre goduto di quel bruciore, sapendo che mi avrebbe fatto crescere[1].
La carriera del campione del mondo di bodybuilding Schwarzenegger, la sua capacità di avere successo anche in campi diversi, persino in politica come Governatore della California, parte da uno scantinato del piccolo borgo in cui nasce, in Austria, antro nel quale egli si allenava anche d’inverno senza riscaldamento. Saper andare avanti anche nella fatica e senza molti comfort ha permesso di forgiare doti di resistenza e spessore morale elevati. Anche la sua carriera nell’industria cinematografica è da lui stesso attribuita alla capacità acquisita nello sport di lavorare intensamente e impegnarsi a fondo.
Alcuni momenti di sofferenza accompagnano il raggiungimento di un goal, mentre il dolore gratuito ed inutile come quello che si può soffrire da un dentista non è positivo, così come non lo è lo stress distruttivo, il continuo “stare nella fatica” senza tregue. Ma nemmeno fuggirla sempre è utile.
Molti atleti di picco citano il “piacere del dare tutto”, dal fare fatica, e lo associano al concetto di “svuotarsi” fisicamente e mentalmente in modo positivo, avviando una sorta di “pulizia” dalle scorie mentali e fisiche, resa possibile dalla totale concentrazione e dall’intensità. Uno svuotamento che lascia spazio ad uno stato di benessere successivo, riposo e recupero indispensabili, senza i quali la fatica precedente diventa solo dannosa.
Tutti sappiamo che la preparazione in qualsiasi campo richiede impegno e questo può anche diventare fatica, sforzo. La soglia tra utilizzo positivo del dolore e patologia sta proprio nel grado di consapevolezza: sapere di lavorare in condizione di dolore entro un range di dolore ragionato, con un criterio di crescita e con un programma positivo di sviluppo.
I migliori atleti utilizzano un trucco mentale: la trasformazione del dolore da troppo negativo a compagno di viaggio in un percorso di crescita. In alcuni ambiti, la sua assenza diventa utile anche per segnalare la mancanza di un impegno allenante sufficiente e consistente.
[1] Schwarzenegger, A. (2007), I primi 60 anni, Muscle and Fitness.
Osserviamo questa testimonianza su Dean Karnazes, specialista in ultramaratone. Ad oltre 40 anni ha stabilito record quali la corsa ininterrotta per 80 ore percorrendo 563 km, e la sfida di resistenza denominata North Face Endurance, consistente nel correre una maratona al giorno per 50 giorni, qualcosa di disumano anche per corridori professionisti.
(Intervistatore): Che rapporto ha col dolore fisico?
(Karnazes): Ho imparato ad accettarlo. In genere nessuno cerca il dolore, tutti vogliono la felicità, la comodità. Nella cultura occidentale il dolore viene spesso associato a qualcosa di negativo. Nell’ultramaratona il dolore ti accompagna sempre, è una sfida da superare, ma che ti fa sentire vivo[1].
[1] Aiello, E. (2007), Dean Karnazes, Sport Week, la Gazzetta dello Sport, 1 /09/2007, p. 28
Osserviamo anche in questo passaggio una trasformazione completa della percezione, una Gestalt Switch (salto di paradigma): dal dolore come punizione al dolore associato ad un momento di crescita, come risorsa.
Karnazes cita tra i propri fattori di motivazione la scomparsa della sorella Pary, deceduta a 18 anni, e gli insegnamenti del padre “che mi ha insegnato a vedere lo sport come un modo per dare il meglio di me stesso”, o messaggi formativi di imprinting ricevuti da preparatori, come il coach Cummings “il coach di cross all’epoca delle scuole superiori mi ha inculcato una regola: non correre con le gambe, corri con il cuore”.
In generale, i motori psicologici che producono impegno morale sono diversi, dalla sfida con se stessi alla ricerca interiore, possono includere potenti messaggi genitoriali, sino al riscatto psicologico o la promessa d’onore.
In ogni caso, numerose persone sono sottoposte a stimolazioni psicologiche forti ma non tutte (anzi pochissime) compiono le elaborazioni mentali interiori che li portano a utilizzare correttamente questi stimoli. L’individuo e le sue scelte, la sua volontà, al di la dell’ambiente e degli stimoli, giocano un ruolo cruciale.
Il messaggio che vogliamo lanciare qui è complesso:
non è bene accettare la fatica come condizione esistenziale permanente, è distruttivo, soffrire per soffrire non è il fine dell’umanità;
è bene accettare anche con gioia momenti o periodi di sforzo, anche intenso, e fatica correlata, per raggiungere un certo fine;
la fatica va realizzata con grande consapevolezza delle proprie risorse (self-monitoring), con tempi e modalità di recupero adeguati. Solo con queste attenzioni si potrà utilizzare la fatica come alleata, senza che essa distrugga chi la affronta spesso e a dosi elevate senza recupero.
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